Tra i colpevoli della notevole inabilità alla scrittura di buona parte degli studenti italiani ci sono anch’io.
Ho
appena messo 18 al compito scritto di uno studente della laurea
magistrale in Lettere (quinto anno di università) che meritava invece di
essere bocciato perché, a parte conoscere
maluccio il programma, ha grosse difficoltà nello scrivere: mette male
la punteggiatura, usa i verbi sbagliati, confonde le preposizioni
(scrive per esempio che «la squadra ha l’intenzione a partecipare»,
anziché “di partecipare”) non sa fare un riassunto,
nel senso che invece di riassumere l’intero brano assegnato
sintetizzandone il contenuto lo riassume frase per frase: «L’autore di
questo brano dice che... Poi dice che... Poi dice che...», e così via.
Lo studente che io adesso promuovo potrebbe prima o poi
diventare un insegnante, e con un insegnante simile i suoi futuri
studenti certamente non impareranno a scrivere (ci si potrebbe
domandare: può questo aspirante insegnante imparare a scrivere nei
prossimi anni, tra il suo quinto anno di università e la sua
eventuale, speriamo scongiurabile, entrata in servizio? No, non può,
non s’impara a scrivere a ventitré anni). E allora perché l’ho promosso?
Dato che si discute, in questi giorni, della cattiva scrittura degli
studenti, mi pare che la risposta a questa domanda
possa interessare tutti. Ma non c’è una sola risposta, ce ne sono
molte, o meglio c’è una risposta che si complica, si sfrangia in tante
risposte più piccole, una causa che si può scomporre in concause.
Diciamo
intanto che lo studente a cui ho dato 18 ha ripetuto l’esame quattro
volte. La quarta è andata meglio delle tre precedenti, nel senso che lo
studente non ha smesso di
impegnarsi: ha letto, ha studiato. Ma, quanto alla scrittura, non può
fare più di così: avrebbe dovuto imparare a scrivere decentemente molti
anni fa, ma non ha imparato, e adesso è tardi. Alla quarta volta l’ho
promosso perché, come mi ha ripetuto fino alla
nausea, il mio è «il suo ultimo esame», la tesi è già pronta da tempo,
ed è una tesi che non riguarda la mia materia: lo studente si laureerà
in storia contemporanea. Bocciarlo ancora (e poi ancora, e ancora)
avrebbe voluto dire impedirgli di laurearsi, fargli
buttare via gli studi di cinque anni, rovinargli l’esistenza. Tra
l’altro, lo studente non è affatto sciocco, e ha un libretto più che
dignitoso. Non sa scrivere in un italiano decente, ma ha una media del
27-28, alcuni 30. Esami orali, voti in parte anche
meritati. Di fatto, il mio è uno dei non molti esami scritti che ci
siano a Lettere; i pochi altri sono test a crocette, o sono esami
scritti in cui il docente (legittimamente?) bada più al contenuto che
alla forma. Ma insomma, alla quarta volta – lo studente
è civile, è anche, ripeto, intelligente – non me la sono sentita di
bocciarlo ancora, e gli ho regalato un voto.
Quattro
volte? Sì, perché l’università italiana è quel luogo felice in cui gli
studenti possono ripetere lo stesso esame virtualmente all’infinito. Tre
sessioni l’anno, uno o
due appelli a sessione, più eventuali sessioni straordinarie: i miei
studenti possono, come si dice, “tentare” il mio esame cinque o sei
volte l’anno, finché non lo passano (e infatti quattro non è il record:
ci sono studenti che lo hanno ripetuto sei, sette
volte). In altre nazioni, chi viene bocciato all’esame per due volte
deve ripetere l’intero anno; in alcune, una pluri-bocciatura comporta
l’espulsione dall’università. Non in Italia. In Italia, una volta
entrati, si ha il diritto di ripetere gli esami quante
volte si vuole, così come si ha il diritto di non frequentare le
lezioni. È la libertà.
Una
volta entrati, ho detto, e qui sta l’altro problema, perché la porta
dei dipartimenti di Lettere, a differenza di quella – poniamo – delle
facoltà di Medicina, è sempre aperta.
Ci sono in alcuni atenei, come mini-deterrenti, dei test d’ingresso, ma
sono test che hanno l’obiettivo di permettere allo studente di
autovalutarsi, di capire se quella è davvero la sua strada, più che di
stabilire chi può o non può frequentare i corsi. Di
fatto, è normale leggere, nei bandi, che «l’esito del test non preclude
la successiva immatricolazione al Corso di Laurea» (cito dal sito
dell’Università di Bologna); e di fatto accade spesso che a Lettere
finiscano per iscriversi ragazzi e ragazze che non
hanno passato l’esame d’ammissione a corsi universitari o
para-universitari più selettivi ma di tutt’altra indole, come
Fisioterapia. Lettere è un ripiego, magari momentaneo, in attesa di
riprovare il test di Fisioterapia.
Perché
questa generosità, questa politica di accoglienza erga omnes? Per varie
ragioni. La prima è che non si può mettere il numero chiuso a tutti gli
indirizzi di studio, altrimenti
molti studenti non saprebbero che fare, dopo le superiori. A differenza
dei corsi di medicina o di fisioterapia, i corsi di Lettere e Filosofia
non hanno bisogno di laboratori, perciò non esistono ragioni oggettive
che impongano un filtro agli iscritti: dove
si formano venti latinisti – questa la ratio (non molto razionale, in
verità) – se ne possono formare quaranta. La seconda è che gli studi
umanistici sono spesso intesi come una sorta di viatico
all’emancipazione personale, non solo cioè un percorso
professionalizzante
ma l’occasione per una crescita culturale, per migliorare se stessi:
negare questa chance a studenti magari non manifestamente vocati alla
carriera di intellettuali ma volenterosi, zelanti, davvero capaci di
trarre profitto da lezioni su Aristotele, Shakespeare,
Michelangelo, può apparire ingiusto, anche odioso. La terza, la più
importante, è che qualsiasi università ha tutto l’interesse ad avere –
nei limiti (assai elastici) imposti dalle sue strutture, e dall’ampiezza
del suo corpo docente – il maggior numero possibile
di studenti, un po’ perché gli studenti pagano le tasse e un po’
(soprattutto) perché il ministero dell’Istruzione finanzia le università
in proporzione al numero dei loro iscritti. Pochi studenti vogliono
dire pochi soldi per aprire corsi di studio, assumere
docenti, reclutare giovani ricercatori, organizzare congressi eccetera.
Questa
spiegabile politica delle “porte aperte” ha il suo prezzo: a Lettere
s’iscrivono molti studenti che non avrebbero bisogno di fare
l’università ma di fare o rifare un buon
liceo, e che – tra le altre cose – non sanno scrivere in italiano
perché nessuno glielo ha mai insegnato. Lo studente a cui ho dato 18 è
uno dei tanti: nelle sue condizioni, o peggio, si trova la maggior parte
degli studenti che s’iscrivono a Lettere. Bocciarli
tutti? È quasi impossibile. (1) Perché bocciare a ripetizione la metà o
più dei candidati all’esame di Letteratura italiana vorrebbe dire in
pratica bloccare le carriere di decine e decine di studenti, con ovvie
ripercussioni sulla vita dell’intero dipartimento.
(2) Perché le università vengono premiate dal Ministero anche in
ragione della rapidità con cui gli studenti concludono i loro studi,
cioè arrivano alla tesi: vale a dire che le università sono fortemente
motivate a licenziare in fretta i loro studenti, a
non avere fuori-corso; e i docenti sono tacitamente invitati ad aderire
a questa policy, nel loro stesso interesse. (3) Perché bocciare
qualcuno perché non sa scrivere non è così facile. Abituati a “badare al
contenuto e non alla forma”, molti studenti non
riescono a capire perché io dia tanta importanza ai loro errori o alla
loro sciatteria nello scrivere. Se anche lo capiscono, se arrivano ad
ammettere che la forma è importante, possono non capire perché ciò che
scrivono non va bene, o possono obiettare che
si tratta di errori veniali, di pura distrazione, che non giustificano
la bocciatura. Offesi da questa ingiusta persecuzione, possono, a norma
di regolamento, rivolgersi al rettore o al direttore di dipartimento per
chiedere di fare l’esame (oralmente) con
un altro docente della stessa materia. Supereranno l’esame, si
laureeranno; e alcuni andranno a insegnare.
Tutta
questa spiegazione per dire che una delle ragioni per cui gli studenti
non sanno scrivere (insieme alla disaffezione alla lettura, al contagio
del linguaggio affrettato
degli sms e di Facebook, alla prevalenza del visivo sullo scritto,
eccetera) è che non sanno scrivere molti dei laureati in Lettere che
andranno a insegnare nelle scuole, laureati che non potranno ovviamente
insegnare ad altri ciò che loro stessi non sanno
fare. Questo accade perché, come ho cercato di spiegare, tutti gli
attori coinvolti (gli studenti, le famiglie, i docenti universitari,
l’amministrazione universitaria) hanno interesse a far sì che le cose
vadano in questo modo, ragion per cui non si vede
proprio come sia possibile uscire da questa situazione, salvo un
ripensamento complessivo della formazione scolastica e universitaria,
con enormi investimenti e progetti di medio-lungo periodo che ignorino
l’utilità immediata e le mode: niente che sia realistico
aspettarsi (l’idea che, come recita il manifesto steso dal «Gruppo di
Firenze per la scuola del merito e della responsabilità», la salvezza
possa venire da «una revisione delle indicazioni nazionali che dia
grande rilievo all’acquisizione delle competenze
di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari» mi pare molto
ingenua).
Oppure
no? La soluzione potrebbe arrivare, sta già arrivando forse, da
tutt’altra direzione, il nodo potrebbe essere tagliato anziché sciolto.
Provo a spiegarmi.
La
competenza nella scrittura, il saper scrivere decentemente, declina
anche per una ragione molto semplice e concreta, una ragione che –
magari inconsciamente – è ben chiara
agli studenti che hanno fretta di laurearsi (e più ancora alle loro
famiglie che li mantengono), e cioè che saper scrivere decentemente,
alla fine, non è così importante. Lo era senz’altro nell’Epoca della
Scarsità, quando coloro che avevano accesso alla sfera
pubblica erano pochi, e soprattutto quando il sapere
tecnico-scientifico era percepito come meno rilevante rispetto a quella
infarinatura umanistica che dava accesso alle professioni di prestigio
sia nel settore pubblico sia in quello privato, un’infarinatura
della quale il saper scrivere non bene, magari, ma “elegante”
costituiva una parte non secondaria (che poi l’elegante confliggesse
spesso con il bene, onde l’atrocissimo bellettrismo italiano, è un altro
discorso). Era un saper scrivere che implicava, prima
ancora della cura nello stile, la calligrafia (abolita come materia
alle elementari nel 1985, quando Disegno e scrittura diventano
Educazione all’immagine) e la consapevolezza di come andava strutturato
un testo “ben fatto” (accapo, rientri, maiuscole, corsivi,
formule protocollari ed escatocollari, eccetera). Non è invece molto
importante, saper scrivere, nell’Epoca dell’Abbondanza, quando ogni
individuo ha infinite possibilità di scrivere e di essere letto da un
pubblico infinitamente più ampio di quello sul quale
potevano contare gli scrittori del passato. Dato che lo scrivere (e
anche lo scrivere per un pubblico) è diventato un’attività ordinaria
come parlare o come leggere, molti di coloro che scrivono sono
indifferenti alle regole della buona forma, o non le hanno
mai veramente imparate. Per esempio. Scrivere direttamente al computer è
una cosa tanto normale, per gli studenti di oggi, che far loro
osservare che sarebbe meglio scrivere prima su carta, e solo in un
secondo tempo passare alla “bella” sullo schermo, suona
come una bizzarria. Di fatto, è una raccomandazione che faccio spesso
ai miei studenti, ed è significativo che, come mi spiegano, nessun altro
– genitore o insegnante – gliel’abbia mai fatta prima. Si pensa
evidentemente che i “nativi digitali” siano così
abituati al pc da essere in grado di scrivere direttamente su schermo:
ma basta leggere quello che scrivono per capire che non è così. O
meglio, basta leggere quello che scrivono se chi legge è in grado di
distinguere una frase corretta da una frase scorretta,
e una frase ben congegnata da una frase sbilenca: una competenza che,
per le ragioni che ho detto, manca a molti insegnanti.
Ma
non è che si scrive peggio perché si scrive di più, o più in fretta. Si
scrive peggio soprattutto perché l’infarinatura umanistica che era
tenuta in gran conto fino a qualche
generazione fa è diventata secondaria, a fronte di altre competenze, o a
fronte di niente, ed è per esempio perfettamente possibile entrare a
far parte della “classe dirigente” senza aver letto dei libri e senza
saper scrivere in italiano. Il deputato Alessandro
Di Battista (laurea al DAMS di Roma Tre), che aspira alla carica di
Presidente del Consiglio, o perlomeno di ministro, critica durante la
trasmissione televisiva DiMartedì (La7, 24 gennaio 2017), «coloro che
hanno magari paura che potremo svelare alcune porcate
reali e molto molto grandi che appunto inficiano lì, sulla carne dei
cittadini italiani e sui diritti di tutti noi italiani». Evidentemente,
nella sua formazione, Di Battista non ha investito molto sull’italiano
parlato e scritto. Gli si può dare torto, considerando
la carriera che ha fatto? E del resto: quale messaggio, quale idea di
formazione trapela dal progetto di Alternanza Scuola-Lavoro, che
sostituisce alcune decine di ore curricolari con esperienze lavorative
all’interno di aziende o uffici pubblici? Se davvero
fossimo convinti che studiare con serietà e continuità discipline come
l’italiano o la storia o la biologia o la matematica è il modo migliore
per crescere e per trovarsi un lavoro, accetteremmo davvero di farci
rosicchiare il tempo-scuola dalla gita d’istruzione,
dal Campus sulla Legalità, dalla Settimana della Cittadinanza, dalla
Giornata della Memoria, dallo stage in biblioteca? Càpita che la
devozione continui anche molto tempo dopo che il dio che si prega è
morto.
Mancando,
per così dire, la domanda sociale del prodotto, non c’è dunque neppure
ragione di coltivarlo, ovvero non c’è ragione per non accontentarsi di
un prodotto meno curato,
e insomma di testi brutti, ma comunque comprensibili, anziché di testi
ben scritti. Non coltivando il prodotto, non si coltiva neppure la
sensibilità idonea ad apprezzarlo, ed ecco che non solo si fanno errori
che passano inosservati tanto a chi scrive quanto
a chi legge (cinquantenario dell’alluvione di Firenze, cartello
commemorativo: gli “angeli del fango” salvarono il patrimonio artistico
della città «lavorando giorno e notte in condizioni affatto
favorevoli»), ma si generalizza anche il vizio italianissimo
della “eleganza”, della parola scelta là dove starebbe meglio la parola
comune (stazione di Firenze: «Discendere dal lato opposto», anziché
scendere), si adoperano a casaccio le preposizioni (articolo del noto
giornalista X: «Ho avuto come un soprassalto a
trovare... Una mattina mi telefonò a offrirmi un contratto... Una
malattia contro cui non c'è scampo»), si usano a sproposito le locuzioni
idiomatiche (pagina di un manuale scolastico: «Angelica cadde a gambe
levate»), e più in generale, senza che la sciatteria
comporti veri e propri errori, si scrive male, e si accettano testi
scritti male, anche là dove, data la sede, ci si aspetterebbe un po' di
cura.
Alla
cattiva scrittura corrisponde un cattivo contenuto? Non è detto:
l’articolo del noto giornalista X che ho appena citato è mal scritto, ma
contiene osservazioni interessanti.
Del resto, scrivere per il web (il giornalista X scrive per il web) non
è come scrivere un articolo per un giornale di carta, e scrivere un
articolo per un giornale di carta non è come scrivere un libro: è
comprensibile che l’attenzione e la cura aumentino
progressivamente, dal primo all’ultimo passaggio, a mano a mano che
aumentano il tempo d’esecuzione e l’ipotetica “durata” del testo. È un
fatto però che la gran parte dei testi che si scrivono e si leggono oggi
si scrivono e si leggono direttamente su uno
schermo. Il 18 gennaio 2017, sul quotidiano che riportava con grande
evidenza l’appello allarmato dei «600 professori» sugli studenti che non
sanno scrivere, ho letto questo titolo: «40 anni fa la morte di Re
Cecconi, l’eroe della Lazio ucciso perché confuso
per un ladro». A parte il misterioso epiteto di eroe (perché mai?), chi
ha scritto il titolo non sa, evidentemente, che si può dire “preso per
un ladro”, ma non si può dire “confuso per un ladro”. È il genere di
errore che anni fa sarebbe stato inconcepibile,
sulle pagine di un grande giornale. Ma oggi, in rete, i titoli cambiano
ogni cinque minuti, e semplicemente non c’è tempo per verificare tutto,
e non è economico farlo: i lettori e gli abbonati non diminuiscono per
una preposizione sbagliata, dunque non sono
cose per le quali abbia senso darsi molta pena.
Su
un altro più decisivo piano, la tendenza, anche nelle scuole, ad
affidarsi sempre più spesso all’ebook o alla rete, abolendo o
marginalizzando i libri di testo, e obliterando
così quella distinzione tra, in breve, libro di carta autorevole e
testi effimeri da consumarsi su schermo (notizie, giochi, email, video),
una distinzione che molti si sono sforzati di conservare in questa
primissima età del web, questa tendenza non sembra
poter avere se non un’influenza negativa sulla qualità media
dell’espressione scritta dei futuri adulti. Questo non vuol dire che
saper scrivere bene non possa restare, per alcuni, un traguardo da
raggiungere, e un requisito da parte di datori di lavoro particolarmente
esigenti; ma, parlando sempre di medie e non di picchi, di scriventi e
non di scrittori, sono del parere che in futuro diventerà qualcosa di
simile a una bella virtù privata, come saper dipingere o cantare bene.
Ma perché parlare di futuro? Per molti versi,
come mostrano gli esempi che ho citato, è già così. E il sole non ha
smesso di sorgere, direbbero gli ottimisti: senza avere tutti i torti.
pubblicato il 12 febbraio 2017 da
Il Sole 24 Ore Domenica
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