Nella scuola della «giungla» di Calais non ci sono campanelle che
suonano per richiamare sui banchi gli studenti. Afghani, sudanesi,
camerunensi ed eritrei si alternano in maniera sconnessa durante le ore
di lezione. Se prima dell’inizio della settimana scorsa, il perimetro
attorno alla scuola del Chemin des Dunes era circondato da tende e
container, oggi – al nono giorno dall’inizio delle operazioni di
smantellamento del campo profughi – una piana di fango e detriti si
spiega di fronte al pannello trilingue che indica la scuola. Malgrado la
decisione del prefetto di Lille di radere al suolo la parte sud della
baraccopoli, le lezioni continuano. Anche se a fatica. « I bambini non
vengono più. Prima gli studenti venivano spontaneamente, ora bisogna
andare a cercarli. Hanno paura della polizia». Zimako, rifugiato
nigeriano fondatore della scuola, non perde la speranza e fa prova di un
incrollabile entusiasmo, nonostante la precarietà della situazione.
«Noi continuiamo fino alla fine».
Je m’appelle Hussein. Je vais en Angleterre. Je mange du riz. Gli studenti della classe degli adulti – di età compresa tra i 17 e i 35 anni – si riuniscono in gruppi di cinque o dieci per scrivere e ripetere la coniugazione dei verbi: tra i più frequenti camminare, lavorare, volere. Poi diventa tutto un’improvvisazione in base alle necessità. Quoi? Comment? Combien? Pourquoi? Un esempio su tutti: perché sei venuto in Europa? Una voce si leva dall’aula: guerre. Mael, ha 23 anni, ha attraversato l’Africa e poi l’Europa da solo. Ha gli occhi dello studente sveglio abituato a stare tra i banchi, ma provocatore: scrive diligentemente sul suo quaderno e poi provoca momenti di ilarità generale con le sue battute. Entra in aula Amir: è appena arrivato nella «giungla»; parla correttamente inglese, arabo, farsi, russo e, dopo sei mesi trascorsi a Roma, un po’ di italiano. È avido di sapere, la conoscenza della lingua francese gli sarà fondamentale per poter fare domanda d’asilo in Francia.
Se gli zaini degli studenti in aula sono pressoché vuoti, il peso che si porta in spalla chi è fuori, è ben altro: il lavoro dei bulldozer avanza e c’è chi cerca di salvare la sua casa come può, anche trascinandola. Altri prendono misure ben più draconiane: danno fuoco a tutto per evitare che siano le macchine a raderle al suolo. Non resta più niente, se non la dignità di poter decidere autonomamente della sorte della propria dimora, nell’attesa di poter salire su qualche camion in direzione dell’Inghilterra. Confini in francese si dice frontières; le ore consacrate alla geografia diventano l’occasione per tracciare la mappa di quest’esodo collettivo: l’immancabile Lampedusa, ma anche Crotone, Serbia, Innsbruck, Parigi e infine Calais. Mahil, elettricista sudanese del Darfur parla un francese fluido e deciso. Scrive alla lavagna ma non riesce a tenere l’attenzione troppo a lungo; il vento a Calais è talmente forte da causare insopportabili mal di testa. Per il momento la sua casa è ancora in piedi ma non sa ancora per quanto; la parte sudanese è infatti la zona maggiormente interessata dalle operazioni di sgombero. Alle cinque le forze dell’ordine lasciano la «giungla», gli studenti sono ancora sui banchi. Fahrid arriva a fine lezione: parla otto lingue, ha lavorato come modello in Turchia e studia odontoiatria. Insieme a suo fratello di sedici anni aspetta di raggiungere la sua famiglia in Inghilterra con l’intenzione di proseguire gli studi. Il telefono squilla: un parente dall’Afghanistan, una moglie gelosa, i volontari del centro giuridico che ricordano l’appuntamento per la domanda d’asilo. L’assiduità delle lezioni, così come il loro svolgimento, è assolutamente precaria; tuttavia la classe non si svuota mai interamente.
Questo agglomerato di baracche di legno colorate che è la scuola, rappresenta per la maggior parte delle persone che la frequentano un atto di resistenza estrema, un luogo di incontro e apprendimento avulso dalla tragedia che si svolge all’esterno.
Secondo quanto stabilito nella decisione del prefetto «i luoghi di utilità sociale» come la scuola e i luoghi di culto sono esclusi dalla demolizione. Al ritmo con cui procedono i lavori, non resterà che una scuola senza studenti in una giungla sterile di vita e di conoscenza.
(il manifesto, Rita Chiara Mele, 10 marzo 2016)
Je m’appelle Hussein. Je vais en Angleterre. Je mange du riz. Gli studenti della classe degli adulti – di età compresa tra i 17 e i 35 anni – si riuniscono in gruppi di cinque o dieci per scrivere e ripetere la coniugazione dei verbi: tra i più frequenti camminare, lavorare, volere. Poi diventa tutto un’improvvisazione in base alle necessità. Quoi? Comment? Combien? Pourquoi? Un esempio su tutti: perché sei venuto in Europa? Una voce si leva dall’aula: guerre. Mael, ha 23 anni, ha attraversato l’Africa e poi l’Europa da solo. Ha gli occhi dello studente sveglio abituato a stare tra i banchi, ma provocatore: scrive diligentemente sul suo quaderno e poi provoca momenti di ilarità generale con le sue battute. Entra in aula Amir: è appena arrivato nella «giungla»; parla correttamente inglese, arabo, farsi, russo e, dopo sei mesi trascorsi a Roma, un po’ di italiano. È avido di sapere, la conoscenza della lingua francese gli sarà fondamentale per poter fare domanda d’asilo in Francia.
Se gli zaini degli studenti in aula sono pressoché vuoti, il peso che si porta in spalla chi è fuori, è ben altro: il lavoro dei bulldozer avanza e c’è chi cerca di salvare la sua casa come può, anche trascinandola. Altri prendono misure ben più draconiane: danno fuoco a tutto per evitare che siano le macchine a raderle al suolo. Non resta più niente, se non la dignità di poter decidere autonomamente della sorte della propria dimora, nell’attesa di poter salire su qualche camion in direzione dell’Inghilterra. Confini in francese si dice frontières; le ore consacrate alla geografia diventano l’occasione per tracciare la mappa di quest’esodo collettivo: l’immancabile Lampedusa, ma anche Crotone, Serbia, Innsbruck, Parigi e infine Calais. Mahil, elettricista sudanese del Darfur parla un francese fluido e deciso. Scrive alla lavagna ma non riesce a tenere l’attenzione troppo a lungo; il vento a Calais è talmente forte da causare insopportabili mal di testa. Per il momento la sua casa è ancora in piedi ma non sa ancora per quanto; la parte sudanese è infatti la zona maggiormente interessata dalle operazioni di sgombero. Alle cinque le forze dell’ordine lasciano la «giungla», gli studenti sono ancora sui banchi. Fahrid arriva a fine lezione: parla otto lingue, ha lavorato come modello in Turchia e studia odontoiatria. Insieme a suo fratello di sedici anni aspetta di raggiungere la sua famiglia in Inghilterra con l’intenzione di proseguire gli studi. Il telefono squilla: un parente dall’Afghanistan, una moglie gelosa, i volontari del centro giuridico che ricordano l’appuntamento per la domanda d’asilo. L’assiduità delle lezioni, così come il loro svolgimento, è assolutamente precaria; tuttavia la classe non si svuota mai interamente.
Questo agglomerato di baracche di legno colorate che è la scuola, rappresenta per la maggior parte delle persone che la frequentano un atto di resistenza estrema, un luogo di incontro e apprendimento avulso dalla tragedia che si svolge all’esterno.
Secondo quanto stabilito nella decisione del prefetto «i luoghi di utilità sociale» come la scuola e i luoghi di culto sono esclusi dalla demolizione. Al ritmo con cui procedono i lavori, non resterà che una scuola senza studenti in una giungla sterile di vita e di conoscenza.
(il manifesto, Rita Chiara Mele, 10 marzo 2016)
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