Nel disordine ordinario dei giorni, nei disastri organizzati, pensati
con lucidità da superficie dai compulsivi del potere, per un mondo di
pochi d’immorale ricchezza e di infiniti scarti d’immorale povertà,
trovarne almeno una nei luoghi del nostro agire. Una persona che faccia
la differenza. Che porti con sé l’irrinunciabile. Ciò che rimane nella
sottrazione continua di senso e di rispetto. Nella ruberia quotidiana di
mezzi e di possibilità, nella privazione di spazi e di riconoscimento. In questo sottraendo indegno di dignità farsi resto. Io resto.
Resto qui al mio posto, nell’eterotopia del mio luogo, aperto e
penetrabile. Resto qui, e alle decisioni contabili e ciniche del potere
oppongo la mia determinazione, serena e convinta. In classe a modo mio.
Dichiaro la mia indisponibilità. Io non attuerò mai questa controriforma della scuola.
Non darò mai il mio supporto, nessuna collaborazione a questa
antipedagogia dall’alto, al fascismo dei metodi, alla distruzione delle
persone.
Non sarò strumento di leggi inique per società ingiuste ed escludenti (leggi anche Lettera ai non insegnanti, ndr). Io resterò fedele al basso, all’altezza dello sguardo di ogni bambino.
Nessuna dichiarazione di guerra, non subisco il fascino della carriera del cinque percento. La mia sarà una dichiarazione d’amore.
Amore per il mio lavoro – quello deriso vilipeso bistratto da chi non
lo conosce -, la cui natura immateriale è sostanza dell’essere e non
conosce misura.
Io semplicemente continuo.
Noi insegnanti siamo stati calpestati da un’inaudita violenza
istituzionale, ma come l’erba calpestata diventa sentiero nei versi
della Dimitrova, nello stesso modo facciamoci sentiero, la via maestra,
la Costituzione reale, su cui andare.
Qualche giorno fa ho incontrato una persona che ha fatto la
differenza. In ospedale, un medico dal volto e dal ruolo degno ha
tutelato il diritto e la dignità di mia zia novantunenne, nel paese dei
rottamatori del vecchio e delle conoscenze che contano. «Dovranno
passare su di me» ha detto con pacata e sorridente determinazione. «È
una questione di giustizia, di correttezza, chiamala come vuoi. Io la
chiamo questione morale».
Bene. Dovranno passare sul nostro corpo, sul corpo docente, la questione sarà sempre la stessa. Ognuno può chiamarla come vuole.
L’insegnamento è libertà.
Rosaria Gasparro, maestra
(da comune-info.net, 30 giugno 2015)
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