Le
scuole italiane hanno aperto le porte da una settimana o poco più, e mi
sorge una domanda: vi s’insegna ancora la calligrafia? Quanto tempo
dedicano oggi i maestri al miglioramento la scrittura dei bambini? Ma
poi, in un mondo dominato dalla scrittura delle macchine digitali
(computer, iPad, smartphone, iPhone, ecc.), quanto serve saper scrivere a
mano?
Gunnlaugur
S. E. Briem, noto type designer e scrittore d’origine islandese,
racconta che in una ricerca dell’Università dell’Indiana, condotta dal
professor Karin Harman James, è stato seguito un gruppo di bambini tra i
tre e i cinque anni. Alcuni avevano imparato le lettere dell’alfabeto
digitando sulla tastiera, altri scrivendole a mano. Quest’ultimi
ricordavano meglio l’orientamento delle lettere, per esempio
distinguendo con sicurezza la p da dalla q. Inoltre, la risonanza
magnetica mostrava che i bambini che avevano appreso l’alfabeto
scrivendo a mano, avevano un’attività cerebrale simile a quella di un
adulto; riconoscevano con più esattezza le lettere, cosa che è molto
importante per “vedere” in anticipo le lettere e sviluppare quindi una
velocità di lettura maggiore. Scrivere una lettera dell’alfabeto è
meglio che guardarla, udirla o digitarla.
Nell’introduzione al volume Scrittura corsiva. Un nuovo modello per la scuola primaria della calligrafa e docente Monica Dengo, il
type designer riferisce di altre ricerche nelle università americane
intorno alle capacità che attiva la scrittura a mano rispetto all’uso
della tastiera, o nell’attività di calcolo. C’è da dire che scrivere a
mano non è per nulla una cosa semplice per il bambino. Prima che sia in
grado di farlo, deve raggiungere la raffinatezza del movimento del
braccio e della mano. Tra l’omero e il pollice ci sono infatti 29 ossa
che devono essere tutte coordinate. Il che accade in modo completo solo
dopo i cinque anni, quando il bambino accresce le proprie capacità
motorie. È allora che si può imparare a scrivere, o almeno cimentarsi
nel farlo.
La scrittura a mano è la combinazione di vari aspetti tra loro connessi: linguistico, la lettera come simbolo che riguarda il suono e la conseguente lettura; grafico, la lettera come forma sulla superficie su cui si scrive; psicologico,
la lettera come risultato del modo di percepire e di esprimere se
stessi. Così scrivono Francesco Ascoli e Giovanni De Faccio in un libro,
Scrivere meglio (Nuovi Equilibri, 1998), uscito anni fa, ma che è
ancora un’ottima introduzione alla storia, alle metodologie e alla
didattica della scrittura a mano: la calligrafia.
Questo termine, tornato di moda da qualche anno – ci sono sempre più
corsi rivolti agli adulti per imparare l’arte calligrafica – è scomparso
nella cultura italiana all’epoca della Riforma Gentile nel 1923, quando
fu sostituito con l’espressione “bella scrittura”, per quanto in quel
periodo, grazie al manuale di Alessandro Marcucci, La Bella scrittura nelle scuole elementari, fu introdotta una buona metodologia per insegnare la scrittura a mano ai bambini.
Dal
1985 non c’è più l’obbligo di questo insegnamento, mentre la
calligrafia, che si era mantenuta nelle scuole di avviamento
professionale, è stata abolita nel 1970. L’effetto congiunto di queste
due scelte è la diffusione delle “brutte scritture”, e nonostante le
lamentazioni e le geremiadi rituali di insegnanti e pedagogisti, non si è
più fatto nulla per migliorare la calligrafia dei bambini, salvo rare
eccezioni di maestri e maestre che dedicano parte del loro tempo a
questa istruzione pratica (oggi bisogna saper fare tante e troppe cose e
i poveri maestri sono subissati da materie nuove, dall’inglese
all’informatica).
Del
resto, dalle prime scuole elementari fino all’università si scrive
ancora a mano, e gli insegnanti sanno per esperienza la difficoltà che
incontrano nel leggere temi o riassunti mal scritti, simili alle
proverbiali scritture dei medici, i quali, a loro volta, oggi non
scrivono quasi più a mano, ma usano i computer dei sistemi informatici
regionali per ricette e diagnosi. Naturalmente si tratta di una delle
numerose schizofrenie della nostra società contemporanea, dal momento
che nelle cartolibrerie, nelle librerie tradizionali o nelle grandi
catene commerciali del libro, sono ben presenti espositori con quaderni e
block notes, e la scrittura a mano è coltivata sui taccuini neri dei
Moleskine, elemento cool, alla moda, da Chatwin in poi.
Lo
scrittore che prende appunti sul suo quadernetto, scrivendo
naturalmente a mano, è diventato quasi un brand da imitare. La maggior
parte delle persone che sono andate a scuola tra gli anni Cinquanta e
Ottanta del XX secolo ha imparato a scrivere seguendo nel corsivo lo
stile inglese, che è ancora la regina delle scritture calligrafiche, sia
nella versione pendente che in quella dritta, modello ottocentesco
dominante nella scuola italiana. Come si sa il corsivo è
la scrittura più veloce e scorrevole per scrivere manualmente, grazie
al fatto che la si esegue sollevando poche volte la penna dal foglio.
Secondo
Monica Dengo, calligrafa e docente, dal punto di vista storico il
corsivo è la forma più evoluta, quella che consente lo sviluppo del
ritmo e del flusso naturale dei pensieri dalla mente al foglio, del
rapporto tra corpo, gesto e segno. In un testo del 1973, Variazioni sulla scrittura (Einaudi, 1999) rimasto
a lungo inedito, Roland Barthes ricorda che l’insegnamento della
scrittura a mano è fondamentale per la liberazione del corpo e
l’espressione della personalità.
Nei
vecchi metodi di insegnamento, ad esempio la pratica di tracciare aste
prima di cominciare a scrivere le lettere, era dettato da una forma di
rigidità. Non a caso Maria Montessori raccomandava di cominciare
piuttosto dalle lettere rotonde. Il semiologo francese ricorda che la
scrittura, “per il fatto di essere un prolungamento del corpo, comporta
immancabilmente un’etica”. Nell’Ottocento si decantava il vantaggio
della scrittura dritta che, come un’ortopedia sociale, obbligava il
bambino a tenere il corpo eretto, in posizione frontale, con le braccia
sul tavolo, i due occhi a eguale distanza dalla carta. La rettitudine
fisica come equivalente di quella morale. Barthes propende per la
scrittura leggermente inclinata; per lui il movimento laterale della
mano diventa più facile e rapido.
Nel
suo bellissimo scritto, la cui prima edizione italiana è apparsa anni
fa a cura di Giuseppe Zuccarino (Graphos), ci ricorda che in Occidente, a
seguito delle costrizioni ebraico-cristiane il valore supremo è sempre
la libertà, mentre in Oriente si pratica un apprendimento meno libero.
Sia nell’aspetto filogenetico sia in quello ontogenetico, la scrittura
appare strettamente legata al disegno: il bambino riesce a disegnare dai
due anni, ben prima di scrivere, ed è da questa pratica che si passa
alla scrittura vera e propria. Il discorso sul rapporto tra corpo e
scrittura, uno dei temi del saggio di Barthes, è davvero complesso, e
dunque molto interessante. Come sanno bene le maestre e i maestri le
questioni del piacere, del godimento e del desiderio sono fondamentali
nell’insegnamento.
La
scrittura a mano attiva zone della nostra personalità importanti e
decisive. La scrittura a mano oggi è reputata da molti lenta rispetto
alla velocità della mente, alla rapidità del pensiero che i nuovi media e
le tecnologie informatiche tendono a sviluppare prima di tutto come un
valore oltre che come esito effettivo. Senza dubbio scrivere a mano è
una pratica lenta, simile al camminare, ma proprio per questo promuove
aspetti della psiche e della personalità individuale obliate, se non
proprio cancellate, da smartphone e computer. C’è probabilmente un
maggior equilibrio e armonia tra mente e corpo nell’uso della penna o
del pennarello, per non dire nell’uso di stilografica o Rapidograph,
oggetti ritenuti obsoleti.
Monica
Dengo propone di superare l’uso del corsivo inglese, abbandonato nel
resto dell’Europa da tempo, a favore del corsivo italico [cfr. anche il
sito http://scritturacorsiva.it/].
Nel metodo calligrafico inglese il trattino delle lettere minuscole
come a, e, i, u duplica quello in uscita della lettera precedente; funge
da abbellimento, tuttavia rende l’apprendimento del corsivo più
difficile per il bambino. Chi ha imparato questo metodo nella scuola del
passato ricorda la difficoltà di scrivere la H che somiglia a una I
maiuscola unita alla L, aggiungendo un trattino verticale per non
confondere questa lettera con l’articolo determinativo Il. La calligrafa
reputa che gli svolazzi siano difficili da memorizzare e non necessari.
Il suo modello punta alla semplicità e sostituisce le maiuscole del
corsivo inglese con le maiuscole (H, M, N, R, ecc.), e abolisce gli
anelli tormento della mia infanzia.
Certo,
per chi come me ha appreso la scrittura a mano seguendo il modello del
corsivo inglese, con i suoi svolazzi, i groppi, le giravolte della mano,
è difficile adattarsi ora al corsivo italico. Per ragioni affettive, ma
anche per quella forza d’inerzia che è fondamentale negli individui: ho
imparato a fare così, ed è così. Posso testimoniare che
quell’apprendimento calligrafico fu faticoso e difficile: tanto che
dovetti riempire quaderni e quaderni di svolazzi, che mi risultavano
ingrati e penosi con pennini metallici che aravano i fogli di carta,
invece di accarezzarli (ah, la calligrafia del pennello orientale!).
Così com’era difficile collegare con trattini le lettere seguenti. E
questa tecnica scrittoria, che chiedeva a noi piccini qualità da esperti
calligrafi, mi ha fatto guardare con perplessità, e spesso con un po’
d’orrore, le pratiche calligrafiche delle mie figlie nel corso degli
anni della scuola elementare.
Bisogna
scrivere chiaro? Scrivere chiaro significa pensare “chiaro”, cioè bene,
correttamente? Oppure anche io, figlio della ortopedia scrittoria del
passato, sono schiavo di una visione oppressiva dello scrivere? Imparare
a scrivere, come sostiene Narciso Silvestri, maestro di colore e di
geometria, significa sperimentare il mondo delle turbe grafiche:
tremolio, atarassia, pause, corea; è attraversare il vasto mare
dell’esperienza dell’agitazione e turbamento. Forse noi adulti ci siamo
dimenticati cosa ha significato imparare a scrivere a mano, quali
emozioni e sconcerti comportava quell’atto fondamentale per poter
accedere al mondo dei “grandi”.
Per
dar forma ai propri pensieri, dopo aver abbandonato lo spazio libero
del disegno infantile, verso i cinque o sei anni, siamo tutti passati
attraverso il continente agitato e concitato della scrittura come
comunicazione di sé, dei propri pensieri e sentimenti. Roland Barthes in
quello straordinario saggio ricorda che esistono due sottofondi della
scrittura su cui gli educatori dovrebbero sempre riflettere: “da un
lato, la sessualità (tutti sanno che arrivando alla pubertà i bambini
cambiano scrittura come cambiano voce) e dall’altro il ritmo (l’attività
cadenzata sarebbe inscritta nella parte più arcaica delle nostre
strutture encefaliche; e gli antropologi ci insegnano che, vari millenni
prima della nascita della scrittura vera e propria – attestata – gli
uomini hanno prodotto delle iscrizioni astratte e ritmate)”.
Ogni
volta che s’impara a scrivere a mano è come ricapitolare in se stessi
quel percorso durato un lungo lasso di tempo, ritrovare se stessi nella
calligrafia, come nel disegno ritmico, è anche incontrare la propria
identità. Meglio: nuotare sino alla riga, come ha detto un bambino con
un bellissimo lapsus. Per questo mi auguro che le maestre e i maestri
dedichino più tempo alla calligrafia, antica arte che non merita certo
di scomparire.
(Marco Politi, doppiozero.com, 18 settembre 2014)
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