Ogni
volta che leggo articoli di questo tenore [clicca qui], penso a S., un alunno in cui
mi sono imbattuta - questa è la definizione appropriata - in una scuola
di frontiera, un paio di anni fa. Aveva l'abitudine di alzarsi dal suo
banco, durante la lezione, e aggirarsi
tra i compagni sputando loro addosso e bestemmiando contro di me,
quando tentavo di riportarlo a più miti consigli. Penso di non aver
sentito mai, rivolti al mio indirizzo, tanti improperi tutti messi
assieme. S. aveva il padre in galera e una madre che doveva occuparsi di
altri quattro figli più piccoli. Aveva i libri, vecchie edizioni
abbandonate a scuola su scaffali polverosi. Credo non li avesse mai
aperti. Sono riuscita a catturare per la prima volta la sua attenzione
in maniera casuale. Tra le pagine della mia agenda sulla cattedra faceva
capolino una foto in cui eravamo ritratti io e il mio cagnolino, un
meticcio raccolto per la strada. 'Professorè, chissu cu è, u so' cani?'.
Mi raccontò del suo amore sfrenato per i quattro zampe, mi disse che
trascorreva interi pomeriggi a portare da mangiare ai randagi della sua
zona e che lui stava bene solo con loro perché, ogni volta che lo
vedevano, gli facevano le feste. Da quel giorno in poi, poco alla volta -
certi giorni andava meglio, altri era un delirio -, ha deciso di starmi
a sentire. Si è appassionato alla storia di Malpelo, all'asino
bastonato, al colombre di Buzzati, al Belluca di Pirandello.
'Professorè, il fischio del treno assimigghia a chiddu di li piscaturi
che sento ogni giorno di la mea finestra. Ci pozzu iri ci la navi in
Siberia?'
Sono
riuscita a insegnargli a coniugare i verbi, a distinguere nomi, pronomi
e aggettivi, e qualche altra cosetta. Quando ci siamo salutati, mi ha
detto: 'Ma come professorè, ci lascia come i randagi? Proprio ora che mi
era diventata simpatica?' Avevamo entrambi le lacrime agli occhi.
Fanculo all'invalsi.
Lisa Bonica, 10 maggio 2013, da Facebook
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