L’attore Robin Williams, mancato lo scorso 11
agosto, è stato interprete di decine di film, il più famoso dei quali è
forse “L’attimo fuggente”. Il film ottenne critiche generalmente positive, ma non è mancato chi ne ha sottolineato . Di seguito l'articolo di Piergiorgio Paterlini, pubblicato originariamente sul numero di giugno di Linus, nel 1990, e ripubblicato il 4 settembre 2014 da “minima&moralia”, il blog culturale della casa editrice minimun fax. A questo proposito è interessante anche la critica avanzata dagli psicanalisti Blandino e Granieri [clicca qui].
Adesso che l’avete visto tutti, che avete pianto lacrime calde e belle, che avete applaudito a scena aperta (quasi gli attori su pellicola potessero sentirvi); adesso che avete detto al vostro migliore amico “devi andare assolutamente a vederlo” e poi l’avete addirittura accompagnato (e per voi era la terza volta); adesso posso dire la mia.
L’attimo fuggente di Peter Weir – Panorama
lo dava in testa alle classifiche ancora a fine febbraio, con oltre due
milioni di spettatori in poco meno di cinquemila giorni di presenza;
poi ho perso il conto – non solo è un brutto film, un film che, dal
punto di vista espressivo, scambia retorico con romantico, confonde
tritissima melensaggine con commozione; ma è – sul piano che più ha
impressionato, quello del rapporto professore-studenti, adulto-ragazzi –
un film profondamente autoritario. Eppure è stato vissuto dal pubblico,
da migliaia di ragazzi, panterini e no, come un classico della
“rivolta”, un film dalla loro parte, strumento e rappresentazione
insieme di autoemancipazione scolastica ed esistenziale. Come è
possibile? E cosa può significare questo tremendo abbaglio di massa,
propiziato con dovizia dagli adulti e dai critici, praticamente senza
eccezioni?
Ciò che il film
mostra – certo senza volere, ma appunto per questo ancor più nettamente
– non è un professore allegro e pieno di voglia di vivere. È un adulto
anfetaminico, sempre eccitato in modo inspiegabile, col proprio umore
costantemente sopra tono. Un malato, insomma, come ce ne sono tanti in
giro, ma che nella vita reale suscitano dignitose pietà, solidarietà, a
volte comprensibile fastidio, di sicuro non entusiasmo e
identificazione. Tra una persona piena di vitalità e un esagitato
nevrotico passa una bella differenza, e soprattutto una differenza che
salta agli occhi facilmente, immediatamente riconoscibile. Perché il
pubblico, in massa, ha reagito in modo diametralmente opposto?
Gli educatori
libertari (o anche solo progressisti) – quelli mitici che l’Europa ha
conosciuto tra l’Otto e il Novecento si saranno rivoltati nella tomba,
poveretti – mirano a far uscire dai ragazzi il meglio di ciascuno di
loro, con le differenze anche profonde che li contraddistinguono. Il
professore del film mira – al contrario – a far diventare quei ragazzi
tutti assolutamente identici e, inutile dirlo, identici a lui. Non è
capace di cogliere la grande ricchezza umana che gli si para davanti
agli occhi perché nemmeno si pone il problema. Così come non lo sfiora
il sospetto che differenziata possa, debba essere la forma in cui questi
ragazzi si libereranno e daranno agli altri.
Questo
è l’aspetto peggiore del film, quello più pericoloso e rivelatore. Per
questo professore c’è un solo modo di diventare “grandi” e “liberi”:
essere sempre ipereuforici, leggere le poesie in pubblico anche se non
se ne ha voglia, eccetera. Tutto il resto, altri modi legittimi di
essere se stessi, tutta una fetta larghissima di vita, di emozioni, di
espressioni di sé e anche di comunicazione, sono rase al suolo con
violenza sconvolgente. La riservatezza, ad esempio, quella speciale
malinconia che nasce dalla ricchezza interiore e che proprio tale
ricchezza comunica a spiriti non rozzi e non militaristi.
Quella ricchezza che uno dei ragazzi protagonisti rende così bene – anche qui malgrado la sceneggiatura,
che vorrebbe suggerire il contrario e non vi riesce – ma che l’acuto
professore scambia, e marchia come imbranataggine e debolezza. Una
debolezza da umiliare senza pietà davanti a tutti, fino a che il ragazzo
non diventa come tutti gli altri, e come lui non è, e come avrebbe
diritto a rimanere ed essere conosciuto, riconosciuto, rispettato e
apprezzato. Così è anche per l’assolutezza della strada imposta
all’espressione degli studenti. Il gioco nel cortile, ad esempio – che,
nonostante le apparenze, reca lo stesso segno della pedagogia della
frusta. Tutte queste scene evocano – con paradossale nitore – non le
scuole alternative, l’autogestione pedagogica, l’antiautoritarismo
educativo, ma un sadismo alla David Copperfield, e l’odiosità
della vita di caserma. Queste scene, che poi sono la gran parte del
film, non richiamano certo alla mente la scuola di Barbiana; semmai quei
film sul Vietnam in cui si mostra – atrocemente – l’addestramento al
campo: un concentrato disgustoso di violenza psicologica, repressione,
massificazione, obbligatoria adesione alla personalità e ai valori del
“capo”, annullamento delle differenze e delle personalità. Con tanto di
corollario: presunti “deboli” (cioè non omologati) schiacciati come
insetti.
Perché nessuno ha colto e denunciato questa impressionante analogia?
Mi chiedo come
reagirebbe ognuno dei giovani spettatori entusiasti e plaudenti se una
sera in discoteca, non avendo voglia di ballare, trovasse qualcuno – un
adulto! – che ve lo costringesse con tutti i mezzi, fino al cedimento.
Vorrei proprio vedere. L’adulto rompicoglioni verrebbe massacrato, e
giustamente. Il film invece – che non mostra altro – viene applaudito e
commuove. Non verrebbe certo applaudito, e non porterebbe alle lacrime
(se non di pena o rabbia) un insegnante ciellino – mi hanno raccontato
diversi episodi veri di questo genere – che sul pullman di una gita
scolastica obbligasse tutti, in ogni momento, a cantare canti di
montagna. Perché bisogna essere allegri. O semplicemente perché
bisogna. Perché l’unico modo di vivere è quello; quel cameratismo
infantile e affettato l’unica autenticità riconosciuta.
L’attimo fuggente non è niente di diverso. Ed entusiasma. Che strano!
Eccoli,
dunque, questi studenti apparentemente vivi, vivissimi, in realtà
burattinizzati fino al midollo. Con la mobilità iperesaltata del legno
mosso da un’abile mano, e l’anima di stoffa e aria, senza vita, senza
autonomia. Non ragazzi resi finalmente consapevoli e maturi, ma
replicanti. Muccioliani instupiditi. E – naturalmente – fanatici. Come
fanatico è essenzialmente il loro santone, non a caso completamente
somigliante ai leader tutti uguali delle sette pseudoreligiose, e a
nessun educatore libertario o illuminato che si conosca.
Perché nessuno
l’ha avvertito? Perché non è scattato subito almeno un disagio, proprio
a livello di pelle, una repulsione istintiva e salutare?
Mi
chiedo se non sia proprio questo, dunque, che la nostra “meglio
gioventù” altro non aspetta, ormai. Se non sia matura per questo. Per
l’avvento di un Capo, di un Vero Uomo che finalmente riempia di sé, e
del suo mito, le testoline vuote e i cuori ormai incapaci di entusiasmo
dei ragazzi. Un Uomo Vero che poi inventi per loro, cioè per se stesso,
una Guerra Santa (vera o metaforica, in ogni caso piena di vittime)
grazie alla quale scaricare finalmente gli strabordanti ardori
adolescenziali. Un Vero Uomo, che esalti e punisca e giudichi con
l’assolutezza del Padre e del Sacerdote. Che urli e gesticoli sempre.
Affacciato magari a un bel Balcone. E che il sabato pomeriggio, al posto
delle pigre passeggiate per il centro, li raduni in un bel campo
sportivo, a fare militaresche Danze Maschie, tutti insieme, tutti
uguali, tutti zombies, ma tirati a lucido in virili camicette nere.
È possibile.
Scusate se ne sono così scandalizzato e incredulo. Ma, ancor più, incazzato e atterrito.Piergiorgio Paterlini
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