Renzi
e la feroce politica che vuole riformare la scuola con il delitto della
"mobilità nazionale", con la propaganda di un "merito" che non conosce
l’ingiustizia sociale
Terranei
limacciosi, roventi d’estate e gelati d’inverno, ammassati tra Via
Cassano, il cimitero e gli stucchi umbertini di Corso Italia:
questo erano i “Censi” a Secondigliano negli anni Settanta del
secolo scorso. Miseria, ignoranza, rassegnazione, povera gente
messa a marcire in lerci tuguri, grumi di umanità diffidente e
straniera che ti seguiva con la coda degli occhi finché poteva. Così,
con la sensazione d’esser seguito, ci passai per sei anni e fu
sempre come la prima volta, quando da via Tagliamonte sbucai su una
spianata di terra battuta e ciuffi d’erba olivastra: al centro, due
prefabbricati con le finestre a vetri rinforzati, circondati da
un muro di tufo, tra bidoni anneriti dai falò notturni, carcasse
d’auto, cumuli d’immondizia, copertoni, zingari accampati, tende,
roulotte, celerini e una folla inferocita. Una scuola in una terra
di camorra.
-
Via una tribù — sibilò quel giorno il direttore didattico — ce n’è
un’altra che arriva. Cominciai così, tra zingari rifiutati, mamme
inviperite, manganelli e bambini di prima elementare entrati in
classe a fatica in mezzo a compagni distesi a terra, aggrappati ai
piedi delle mamme. Era scritto in quegli occhi piangenti che
parlavano più chiaro delle bocche: la scuola che da studente avevo
odiato mi avrebbe ferito di nuovo. Però l’avrei amata.
Erano
tempi di svolte così radicali che non bastavano bombe. La scuola si
apriva alla società e ai “Censi” la “democrazia partecipata” fu
vita vera; per un po’ i collettivi tennero il campo e si lottò. La
destra fece carte false per tener fuori la scuola pidocchi,
pidocchiosi e pensiero critico e trovò muti consensi al centro, la
sinistra frenava ogni forma di autonomia, ma facemmo causa comune
coi pidocchiosi che chiedevano diritti, tenemmo duro e la sorte dei
pidocchi non pesò su quella dei pidocchiosi ai quali, però, quando si
votava — Consiglio di Circolo o Parlamento poco importava — in
cambio di voti, i clerico-fascisti donavano pettini stretti, aceto,
miracolose polveri antiparassitarie e per sopramisura un
impegno allettante: mai più zingari ai “Censi”.
I
docenti spaesati dalla scuola di massa cercarono riferimenti : la
sinistra attirò i liberali, la destra i nostalgici dei tempi andati
che nello schifo per i pidocchi della scuola di massa, misero l’odio di
classe. In quanto alla “società civile”, piantò baracca e burattini e
si buttò sul privato.
Il
direttore didattico mise in campo il coraggio di ex combattente,
ma alla scuola di massa mancò sempre qualcosa, dai bidelli agli
arredi, dalle aule alla palestra, dai laboratori ai sussidi. E non
bastò nemmeno che molti dei docenti ostili, capito il gioco,
scendessero in trincea; la “democrazia partecipata” morì
nell’impotenza degli Organi Collegiali e la stagione di lotte si
chiuse in labirinti di zingari, copertoni, carcasse d’auto rubate e
battaglie sindacale sugli stipendi.
Coi
ragazzi di prima giunsi alla quinta, ma a Natale erano analfabeti.
Grandi cerchi fuori dai righi, ominidi stilizzati come fossimo al
paleolitico, macchiaioli, impressionisti, ma analfabeti: qui mi
aveva condotto una “Guida per il maestro” che ignorava l’esistenza
dei “Censi” e dei suoi ragazzi. A parte i pidocchi, le classi
“migliori” stavano anche peggio, ma aver compagni al duol non scema
la pena. I ragazzi mi volevano un bene dell’anima, erano un miracolo
di democratica indisciplina, ma il profitto valeva zero e mi prese
un’ansia senza nome. La notte sognavo l’alfabetiere, balzavo su col
cuore in gola e mi calmavo preparando esami per l’università.
Fu
a fine febbraio. Un lampo negli occhi e Bocchetti, trionfante, esibì
fogli zeppi di parole corrette. Tartagliava come sempre, in preda a
indomabili tremori nervosi, ma la spuntò. In un quadratino in
alto a sinistra, come si doveva, aveva messo un topo accettabile; la
coda era forse lunga, ma la pagina era piena di parole che
cominciavano con “zeta”: corsivo, stampatello, maiuscole e
minuscole. Preciso e pulito. «Bravissimo! — gli feci, sobbalzando —
ma dimmi che hai scritto».
«La
z di zoccola, pruvessò!». E la luce dei suoi occhi entrò nella mia
testa Per i ragazzi dei “Censi” il topo aveva due nomi: “sorice” o
“suricillo”, se intendevano topolino, “zoccola” o “zucculona” se
si trattava di notevoli dimensioni o donne di facili costumi, E’
terra straniera, mi dissi, e a casa lavorai come un pazzo.
Ventiquattr’ore dopo ero uno straccio, ma giunsi ai “Censi” ch’era
quasi l’alba. La celere come sempre circondava zingari e scuola.
Tappezzai l’aula di nuovi cartelloni. La z di “zoccola” al posto
d’onore, rinforzata da un frate francescano — “ze’ monaco” ai
“Censi” era una finezza da Basilio Puoti — e col frate, a scanso
equivoci, incollai un “suricillo” vivace con le sue letterine: “s”
maiuscola, minuscola, in stampatello e corsivo. Più in basso, un
trionfo di gatti stampati con cura; uno bianconero e un altro fulvo,
con le chiarissime iniziali: la “i” di “iatta” e la “m” di “mucillo”.
Questo era il gatto ai “Censi”: “iatta” o “mucillo”. Una botte
marrone a cerchi neri suggeriva decisa la “v” di “votta”, un’oca
grande e grossa stava lì per la “p” di “paparella”, e via così, doppi e
tripli cartelloni per un terremoto che inserì la scuola, la
lettura e la scrittura tra le conquiste della vita dei miei
tripudianti ragazzi.
In
quegli anni divenni maestro. Non chiedete di errori o di danni. Andò
come poteva andare. Ignoranti senza futuro, però sul viso denutrito e
negli occhi vivi c’era ancora posto per il rosso dell’imbarazzo, della
vergogna e della timidezza, per l’innocenza dell’infanzia, appannata
dal velo di chi conosce la vita. Niente era già perso. Dei genitori, i
padri erano invisibili e le mamme a trent’anni già vecchie. Subito
fuori, però, il veleno della “società civile” ci soffocava più degli
zingari e della celere. Sullo slargo dopo Via Tagliamonte i cortei di
protesta che attraversavano la città non giunsero mai. La
politica ai “Censi” si preparava a sostituire nuovi ghetti a vecchi
formicai; politica era la licenza concessa a una scuola privata
per borghesi benpensanti; era il favore in cambio del favore, il
voto che valeva lavoro.
Un
alunno si perse. Uno piccolino che mi aveva avvisato: «Ce sta nu
Mecedes che mi piace. Dimane vedimme’ comme va». I carabinieri lo
inseguirono a sirene spiegate: al volante non si vedeva nessuno, ma
guidava come un pilota di formula uno. Quando strinsero l’auto al
muro dopo il marciapiede, era sdraiato al posto di guida. Toccava i
pedali con la punta dei piedi, teneva il volante tra le mani dio solo sa
come e davanti vedeva e non vedeva, però gli bastava. Il giorno dopo
finì sulle pagine dei giornali e a scuola mi sfidò: «Io ve l’avevo
ditto». Sulle prime pagine tornò anni dopo: ergastolo per omicidio
durante una rapina. Uccise il custode di una fabbrica con una
fucilata. Degli altri non so. Passai alle medie e ai “Censi” non
tornai più. Ormai non esistono più; li spazzò via la ruspa alla fine
degli anni Settanta: recupero delle aree periferiche, si disse.
Sulle macerie ora trovi impenetrabili ghetti e una camorra da
società dei consumi. Più feroce dell’onorata società di lazzaroni e
guappi. Intanto più feroce di ogni ferocia, la politica continua a
“riformare la scuola”; Renzi ora la salva con non la incredibile
“mobilità nazionale”. Un delitto, questo, che nessuno pagherà.
Giuseppe Aragno, 12.9.2014, il manifesto
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