16 set 2014

la scuola pidocchiosa ai censi di secondigliano (di giuseppe aragno)

Renzi e la feroce politica che vuole riformare la scuola con il delitto della "mobilità nazionale", con la propaganda di un "merito" che non conosce l’ingiustizia sociale
Ter­ra­nei limac­ciosi, roventi d’estate e gelati d’inverno, ammas­sati tra Via Cas­sano, il cimi­tero e gli stuc­chi umber­tini di Corso Ita­lia: que­sto erano i “Censi” a Secon­di­gliano negli anni Set­tanta del secolo scorso. Mise­ria, igno­ranza, ras­se­gna­zione, povera gente messa a mar­cire in lerci tuguri, grumi di uma­nità dif­fi­dente e stra­niera che ti seguiva con la coda degli occhi fin­ché poteva. Così, con la sen­sa­zione d’esser seguito, ci pas­sai per sei anni e fu sem­pre come la prima volta, quando da via Taglia­monte sbu­cai su una spia­nata di terra bat­tuta e ciuffi d’erba oli­va­stra: al cen­tro, due pre­fab­bri­cati con le fine­stre a vetri rin­for­zati, cir­con­dati da un muro di tufo, tra bidoni anne­riti dai falò not­turni, car­casse d’auto, cumuli d’immondizia, coper­toni, zin­gari accam­pati, tende, rou­lotte, cele­rini e una folla infe­ro­cita. Una scuola in una terra di camorra.
- Via una tribù — sibilò quel giorno il diret­tore didat­tico — ce n’è un’altra che arriva. Comin­ciai così, tra zin­gari rifiu­tati, mamme invi­pe­rite, man­ga­nelli e bam­bini di prima ele­men­tare entrati in classe a fatica in mezzo a com­pa­gni distesi a terra, aggrap­pati ai piedi delle mamme. Era scritto in que­gli occhi pian­genti che par­la­vano più chiaro delle boc­che: la scuola che da stu­dente avevo odiato mi avrebbe ferito di nuovo. Però l’avrei amata.
Erano tempi di svolte così radi­cali che non basta­vano bombe. La scuola si apriva alla società e ai “Censi” la “demo­cra­zia par­te­ci­pata” fu vita vera; per un po’ i col­let­tivi ten­nero il campo e si lottò. La destra fece carte false per tener fuori la scuola pidoc­chi, pidoc­chiosi e pen­siero cri­tico e trovò muti con­sensi al cen­tro, la sini­stra fre­nava ogni forma di auto­no­mia, ma facemmo causa comune coi pidoc­chiosi che chie­de­vano diritti, tenemmo duro e la sorte dei pidoc­chi non pesò su quella dei pidoc­chiosi ai quali, però, quando si votava — Con­si­glio di Cir­colo o Par­la­mento poco impor­tava — in cam­bio di voti, i clerico-fascisti dona­vano pet­tini stretti, aceto, mira­co­lose pol­veri anti­pa­ras­si­ta­rie e per sopra­mi­sura un impe­gno allet­tante: mai più zin­gari ai “Censi”.
I docenti spae­sati dalla scuola di massa cer­ca­rono rife­ri­menti : la sini­stra attirò i libe­rali, la destra i nostal­gici dei tempi andati che nello schifo per i pidoc­chi della scuola di massa, misero l’odio di classe. In quanto alla “società civile”, piantò baracca e burat­tini e si buttò sul privato.
Il diret­tore didat­tico mise in campo il corag­gio di ex com­bat­tente, ma alla scuola di massa mancò sem­pre qual­cosa, dai bidelli agli arredi, dalle aule alla pale­stra, dai labo­ra­tori ai sus­sidi. E non bastò nem­meno che molti dei docenti ostili, capito il gioco, scen­des­sero in trin­cea; la “demo­cra­zia par­te­ci­pata” morì nell’impotenza degli Organi Col­le­giali e la sta­gione di lotte si chiuse in labi­rinti di zin­gari, coper­toni, car­casse d’auto rubate e bat­ta­glie sin­da­cale sugli stipendi.
Coi ragazzi di prima giunsi alla quinta, ma a Natale erano anal­fa­beti. Grandi cer­chi fuori dai righi, omi­nidi sti­liz­zati come fos­simo al paleo­li­tico, mac­chia­ioli, impres­sio­ni­sti, ma anal­fa­beti: qui mi aveva con­dotto una “Guida per il mae­stro” che igno­rava l’esistenza dei “Censi” e dei suoi ragazzi. A parte i pidoc­chi, le classi “migliori” sta­vano anche peg­gio, ma aver com­pa­gni al duol non scema la pena. I ragazzi mi vole­vano un bene dell’anima, erano un mira­colo di demo­cra­tica indi­sci­plina, ma il pro­fitto valeva zero e mi prese un’ansia senza nome. La notte sognavo l’alfabetiere, bal­zavo su col cuore in gola e mi cal­mavo pre­pa­rando esami per l’università.
Fu a fine feb­braio. Un lampo negli occhi e Boc­chetti, trion­fante, esibì fogli zeppi di parole cor­rette. Tar­ta­gliava come sem­pre, in preda a indo­ma­bili tre­mori ner­vosi, ma la spuntò. In un qua­dra­tino in alto a sini­stra, come si doveva, aveva messo un topo accet­ta­bile; la coda era forse lunga, ma la pagina era piena di parole che comin­cia­vano con “zeta”: cor­sivo, stam­pa­tello, maiu­scole e minu­scole. Pre­ciso e pulito. «Bra­vis­simo! — gli feci, sob­bal­zando — ma dimmi che hai scritto».
«La z di zoc­cola, pru­vessò!». E la luce dei suoi occhi entrò nella mia testa Per i ragazzi dei “Censi” il topo aveva due nomi: “sorice” o “suri­cillo”, se inten­de­vano topo­lino, “zoc­cola” o “zuc­cu­lona” se si trat­tava di note­voli dimen­sioni o donne di facili costumi, E’ terra stra­niera, mi dissi, e a casa lavo­rai come un pazzo. Ventiquattr’ore dopo ero uno strac­cio, ma giunsi ai “Censi” ch’era quasi l’alba. La celere come sem­pre cir­con­dava zin­gari e scuola. Tap­pez­zai l’aula di nuovi car­tel­loni. La z di “zoc­cola” al posto d’onore, rin­for­zata da un frate fran­ce­scano — “ze’ monaco” ai “Censi” era una finezza da Basi­lio Puoti — e col frate, a scanso equi­voci, incol­lai un “suri­cillo” vivace con le sue let­te­rine: “s” maiu­scola, minu­scola, in stam­pa­tello e cor­sivo. Più in basso, un trionfo di gatti stam­pati con cura; uno bian­co­nero e un altro fulvo, con le chia­ris­sime ini­ziali: la “i” di “iatta” e la “m” di “mucillo”. Que­sto era il gatto ai “Censi”: “iatta” o “mucillo”. Una botte mar­rone a cer­chi neri sug­ge­riva decisa la “v” di “votta”, un’oca grande e grossa stava lì per la “p” di “papa­rella”, e via così, doppi e tri­pli car­tel­loni per un ter­re­moto che inserì la scuola, la let­tura e la scrit­tura tra le con­qui­ste della vita dei miei tri­pu­dianti ragazzi.
In que­gli anni divenni mae­stro. Non chie­dete di errori o di danni. Andò come poteva andare. Igno­ranti senza futuro, però sul viso denu­trito e negli occhi vivi c’era ancora posto per il rosso dell’imbarazzo, della ver­go­gna e della timi­dezza, per l’innocenza dell’infanzia, appan­nata dal velo di chi cono­sce la vita. Niente era già perso. Dei geni­tori, i padri erano invi­si­bili e le mamme a trent’anni già vec­chie. Subito fuori, però, il veleno della “società civile” ci sof­fo­cava più degli zin­gari e della celere. Sullo slargo dopo Via Taglia­monte i cor­tei di pro­te­sta che attra­ver­sa­vano la città non giun­sero mai. La poli­tica ai “Censi” si pre­pa­rava a sosti­tuire nuovi ghetti a vec­chi for­mi­cai; poli­tica era la licenza con­cessa a una scuola pri­vata per bor­ghesi ben­pen­santi; era il favore in cam­bio del favore, il voto che valeva lavoro.
Un alunno si perse. Uno pic­co­lino che mi aveva avvi­sato: «Ce sta nu Mece­des che mi piace. Dimane vedimme’ comme va». I cara­bi­nieri lo inse­gui­rono a sirene spie­gate: al volante non si vedeva nes­suno, ma gui­dava come un pilota di for­mula uno. Quando strin­sero l’auto al muro dopo il mar­cia­piede, era sdra­iato al posto di guida. Toc­cava i pedali con la punta dei piedi, teneva il volante tra le mani dio solo sa come e davanti vedeva e non vedeva, però gli bastava. Il giorno dopo finì sulle pagine dei gior­nali e a scuola mi sfidò: «Io ve l’avevo ditto». Sulle prime pagine tornò anni dopo: erga­stolo per omi­ci­dio durante una rapina. Uccise il custode di una fab­brica con una fuci­lata. Degli altri non so. Pas­sai alle medie e ai “Censi” non tor­nai più. Ormai non esi­stono più; li spazzò via la ruspa alla fine degli anni Set­tanta: recu­pero delle aree peri­fe­ri­che, si disse. Sulle mace­rie ora trovi impe­ne­tra­bili ghetti e una camorra da società dei con­sumi. Più feroce dell’onorata società di laz­za­roni e guappi. Intanto più feroce di ogni fero­cia, la poli­tica con­ti­nua a “rifor­mare la scuola”; Renzi ora la salva con non la incre­di­bile “mobi­lità nazio­nale”. Un delitto, que­sto, che nes­suno pagherà.
Giuseppe Aragno, 12.9.2014, il manifesto

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