7 mag 2014

test invalsi? no, grazie (di benedetto vertecchi)

In questo periodo dell’anno la scuola è dominata dalle operazioni per le rilevazioni periodiche sui livelli di apprendimento (i «test Invalsi»). Si tratta di un’operazione che richiede rilevante impegno organizzativo, perché gli allievi coinvolti sono alcuni milioni. Si tratta anche di un’operazione molto costosa [clicca qui], che prevede una fase preliminare di messa a punto delle prove, la loro distribuzione sul territorio, lo svolgimento da parte degli allievi, la rilevazione dei dati e il loro trattamento, la diffusione dei risultati.
Tali risultati dovrebbero poi costituire il punto di partenza per interventi rivolti a migliorare la qualità dell’educazione scolastica: invece di intervenire in modo generico, sulla scorta d’impressioni più o meno condivise, si assumerebbero decisioni fondate sulla costatazione delle esigenze riscontrate.
Gli argomenti a favore delle pratiche valutative che investono il sistema scolastico hanno una loro suggestione, derivante dalla semplicità dell’impianto interpretativo. È una semplicità che contrasta col carattere di «sistema» che si afferma di voler conferire alla valutazione. Un sistema rappresenta, infatti, una realtà complessa, a determinare la quale concorre un gran numero di variabili. Tali variabili assumono valori in un lungo periodo di tempo e con riferimento ai singoli contesti in cui l’educazione è praticata.
Ne deriva che in un momento determinato sono molte le variabili che nel complesso orientano le caratteristiche del sistema e che esse costituiscono un reticolo che non consente di porle in successione.
La valutazione che si sta praticando nelle nostre scuole suppone invece che ci si possa limitare a prendere atto di un certo numero di variabili indipendenti (alle quali si riconosce un significato causale) che identificano il profilo dei singoli allievi, di altre variabili collegabili ad alcune condizioni di processo (per esempio, le competenze degli insegnanti) e delle variabili dipendenti che danno conto dei risultati conseguiti dagli allievi.
Chiunque abbia una qualche consuetudine con la ricerca educativa (non con l’assunzione di interpretazioni prese a prestito da altri settori della vita sociale, per esempio la gestione aziendale) sa bene che la conoscenza dei processi nei quali sono coinvolti bambini e ragazzi non tollera semplificazioni. Se poi dal piano sincronico (rilevazioni che si riferiscono a un breve periodo di tempo) passiamo a quello diacronico (guardando i mutamenti che interessano il succedersi delle generazioni), lo schematismo delle interpretazioni ora alla moda, e ossessivamente ripetute da moltitudini di sedicenti esperti, appare ancora meno consistente.
Nessuna delle grandi trasformazioni culturali che si sono succedute dalla metà del millennio trascorso è interpretabile secondo gli schemi che oggi si vogliono applicare alla valutazione del sistema scolastico. Le trasformazioni educative di maggior rilievo sono quelle che hanno accompagnato le riforme religiose (a cominciare da quella di Lutero), le trasformazioni economiche (si pensi agli effetti della rivoluzione industriale), il manifestarsi di una nuova consapevolezza collettiva (le basi della nostra sensibilità nei confronti dell’educazione sono state definite nell’ambito della rivoluzione francese), gli eventi rivoluzionari (è il caso delle grandi rivoluzioni del ventesimo secolo, da quella di Ottobre alla rivoluzione cinese al rovesciamento del regime di Batista).
Le considerazioni che precedono assumono significato se le rilevazioni valutative di «sistema» presentano, almeno, il requisito della correttezza metodologica. Non mi riferisco tanto alle elaborazioni statistiche, che ormai non rappresentano più un problema perché quasi del tutto automatizzate, quanto alla consapevolezza delle implicazioni della valutazione sullo svolgimento dell’attività quotidiana delle scuole.
Un segno evidente della trascuratezza con la quale si è intrapreso il percorso valutativo è che di fronte al dilagare di comportamenti di rifiuto, variamente espressi, non si sia trovato di meglio che invocare a scusante la propensione delle scuole al cheating, ovvero, in italiano corrente, all’imbroglio. Al fenomeno si è cercato di porre un argine ricorrendo a espedienti statistici, senza chiedersi se non fosse prima di tutto necessario capire la ragione che negli anni passati (e nessuno può escludere che qualcosa del genere continui ad accadere) ha spinto un numero consistente di scuole ad assumere comportamenti che avevano come conseguenza l’alterazione dei dati.
Eppure, non è difficile immaginare che il ricorso all’imbroglio non sia altro che una manifestazione di sfiducia nei confronti delle campagne valutative. Sarà difficile ricostituire il rapporto di fiducia che è alla base di qualunque attività valutativa se s’insiste a voler compiere rilevazioni sull’intera popolazione, ottenendo dati di ridotta attendibilità.
Se l’intento delle rilevazioni nazionali consiste nel migliorare la qualità delle decisioni, tale intento può essere con attendibilità maggiore conseguito compiendo rilevazioni su campione. Oltre tutto, si realizzerebbero economie consistenti, da impegnare per la messa a punto e la verifica sul campo di procedure didattiche innovative. 
(Benedetto Vertecchi, l’Unità, 7 maggio 2014)

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