In
questo periodo dell’anno la scuola è dominata dalle operazioni per le
rilevazioni periodiche sui livelli di apprendimento (i «test Invalsi»).
Si tratta di un’operazione che richiede rilevante impegno organizzativo,
perché gli allievi coinvolti sono alcuni milioni. Si tratta anche di un’operazione molto costosa [clicca qui], che prevede una fase preliminare di messa a punto delle prove, la
loro distribuzione sul territorio, lo svolgimento da parte degli
allievi, la rilevazione dei dati e il loro trattamento, la diffusione
dei risultati.
Tali risultati dovrebbero poi costituire il punto di partenza per interventi rivolti a migliorare la qualità dell’educazione scolastica:
invece di intervenire in modo generico, sulla scorta d’impressioni più o
meno condivise, si assumerebbero decisioni fondate sulla costatazione
delle esigenze riscontrate.
Gli
argomenti a favore delle pratiche valutative che investono il sistema
scolastico hanno una loro suggestione, derivante dalla semplicità
dell’impianto interpretativo. È una semplicità che contrasta col
carattere di «sistema» che si afferma di voler conferire alla
valutazione. Un sistema rappresenta, infatti, una realtà complessa, a
determinare la quale concorre un gran numero di variabili. Tali
variabili assumono valori in un lungo periodo di tempo e con riferimento
ai singoli contesti in cui l’educazione è praticata.
Ne
deriva che in un momento determinato sono molte le variabili che nel
complesso orientano le caratteristiche del sistema e che esse
costituiscono un reticolo che non consente di porle in successione.
La
valutazione che si sta praticando nelle nostre scuole suppone invece
che ci si possa limitare a prendere atto di un certo numero di variabili
indipendenti (alle quali si riconosce un significato causale) che
identificano il profilo dei singoli allievi, di altre variabili
collegabili ad alcune condizioni di processo (per esempio, le competenze
degli insegnanti) e delle variabili dipendenti che danno conto dei
risultati conseguiti dagli allievi.
Chiunque
abbia una qualche consuetudine con la ricerca educativa (non con
l’assunzione di interpretazioni prese a prestito da altri settori della
vita sociale, per esempio la gestione aziendale) sa bene che la conoscenza dei processi nei quali sono coinvolti bambini e ragazzi non tollera semplificazioni.
Se poi dal piano sincronico (rilevazioni che si riferiscono a un breve
periodo di tempo) passiamo a quello diacronico (guardando i mutamenti
che interessano il succedersi delle generazioni), lo schematismo delle
interpretazioni ora alla moda, e ossessivamente ripetute da moltitudini
di sedicenti esperti, appare ancora meno consistente.
Nessuna
delle grandi trasformazioni culturali che si sono succedute dalla metà
del millennio trascorso è interpretabile secondo gli schemi che oggi si
vogliono applicare alla valutazione del sistema scolastico. Le
trasformazioni educative di maggior rilievo sono quelle che hanno
accompagnato le riforme religiose (a cominciare da quella di Lutero), le
trasformazioni economiche (si pensi agli effetti della rivoluzione
industriale), il manifestarsi di una nuova consapevolezza collettiva (le
basi della nostra sensibilità nei confronti dell’educazione sono state
definite nell’ambito della rivoluzione francese), gli eventi
rivoluzionari (è il caso delle grandi rivoluzioni del ventesimo secolo,
da quella di Ottobre alla rivoluzione cinese al rovesciamento del regime
di Batista).
Le
considerazioni che precedono assumono significato se le rilevazioni
valutative di «sistema» presentano, almeno, il requisito della
correttezza metodologica. Non mi riferisco tanto alle elaborazioni
statistiche, che ormai non rappresentano più un problema perché quasi
del tutto automatizzate, quanto alla consapevolezza delle implicazioni
della valutazione sullo svolgimento dell’attività quotidiana delle
scuole.
Un segno evidente della trascuratezza
con la quale si è intrapreso il percorso valutativo è che di fronte al
dilagare di comportamenti di rifiuto, variamente espressi, non si sia
trovato di meglio che invocare a scusante la propensione delle scuole al
cheating, ovvero, in italiano corrente, all’imbroglio. Al
fenomeno si è cercato di porre un argine ricorrendo a espedienti
statistici, senza chiedersi se non fosse prima di tutto necessario
capire la ragione che negli anni passati (e nessuno può escludere che
qualcosa del genere continui ad accadere) ha spinto un numero
consistente di scuole ad assumere comportamenti che avevano come
conseguenza l’alterazione dei dati.
Eppure,
non è difficile immaginare che il ricorso all’imbroglio non sia altro
che una manifestazione di sfiducia nei confronti delle campagne
valutative. Sarà difficile ricostituire il rapporto di fiducia che è
alla base di qualunque attività valutativa se s’insiste a voler compiere
rilevazioni sull’intera popolazione, ottenendo dati di ridotta
attendibilità.
Se
l’intento delle rilevazioni nazionali consiste nel migliorare la
qualità delle decisioni, tale intento può essere con attendibilità
maggiore conseguito compiendo rilevazioni su campione.
Oltre tutto, si realizzerebbero economie consistenti, da impegnare per
la messa a punto e la verifica sul campo di procedure didattiche
innovative.
(Benedetto Vertecchi, l’Unità, 7 maggio 2014)
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