Puntuale
come una festa patronale è arrivato qualche giorno fa l’intervento
polemico sul declino scolastico dei ragazzi di oggi. Il Gruppo di Firenze, un piccolo novero eterogeneo
e informale che si dichiara “per la scuola del merito e della
responsabilità”, ha chiamato a raccolta seicento professori
universitari, tra cui alcuni accademici della Crusca e rettori e alcuni
editorialisti importanti (Massimo Cacciari, Paola Mastrocola,
Ilvo Diamanti…), e ha pubblicato sul proprio blog – a partire da un
appello del coordinatore del gruppo Giorgio Ragazzini – una lettera
allarmata destinata al governo:
“È
chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi
ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi
oralmente. Da tempo i docenti
universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti
(grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza
elementare.”
La lettera suggerisce anche i rimedi a questo disastro:
1. revisione delle indicazioni nazionali per dare rilievo all’acquisizione delle competenze di base,
2. introduzione di verifiche nazionali periodiche,
3. partecipazione di docenti delle medie e delle superiori alle verifiche dei corsi di studi precedenti.
Con
altrettanta prevedibilità l’eco a questa geremiade è stato un grido di
dolore: autoflagellazione per i famosi bei tempi andati in cui a scuola
si faceva sul serio non come
oggi, e un dito puntato contro gli insegnanti della primaria che non
sanno ottemperare al loro dovere.
Riconoscendone
le buone intenzioni e il valore di aver portato la questione
dell’educazione linguistica al centro del dibattito, fare le pulci nel
merito e nel metodo alla lettera
non è difficile ed è doveroso. Come da subito ha sottolineato lo
storico Antonio Brusa, la chiamata alle armi dei seicento, pecca di impressionismo:
“Forse
preoccupati di non mostrarsi spocchiosi, i 600 non citano un dato, una
ricerca […] Si parla di scuola? E allora valgono le impressioni, le
sensazioni personali.
Di poca informazione:
““Dichiara uno dei promotori che vorrebbe che nelle elementari le insegnanti promuovessero «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del
lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Bene: a p. 28
(http://www.indicazioninaziona li.it/…/indicazioni_nazionali_ …)
inizia la parte dedicata all’italiano delle Indicazioni. C’è tutto
quello che i nostri eroi vorrebbero reintrodurre, dal dettato, alla
scrittura in corsivo, alla grammatica, alla comprensione dei testi, ben
distribuito fra traguardi da raggiungere in terza
e in quinta primaria.”
Di miscomprensione del problema:
“Chi
vuole fare questa battaglia, che è fondamentale per le sorti della
nostra democrazia (e non solo per la correttezza ortografica delle tesi
di laurea), dovrebbe capire che
due sono i settori nei quali la situazione si sta incancrenendo: il
primo è quello della formazione degli adulti. […] Il secondo, è quello
della formazione dei professori e dei maestri”.
Un
video di qualche tempo con un’intervista a Giorgio Ragazzini – il
coordinatore del Gruppo di Firenze – mostra meglio l’ideologia del
gruppo [video]: un misto di buon senso, un vago
richiamo al a uno spirito civico che confina con il mos maiorum
(onore, merito, severità, rigore…): “C’è chi si illude che con le
riforme della didattica si possa incidere sul cattivo comportamento”. E
in più una condivisibile preoccupazione per la
dispersione scolastica, una problematica idea politica sulle scuole
professionali.
La
ministra dell’istruzione, Valeria Fedeli, si è sentita in dovere di
rispondere, chiamando in causa la figura di Tullio De Mauro:
“Fu
lui negli anni ’80 a farmi capire la necessità di un buon italiano e di
una sua diffusione corretta e capillare tra i giovani. Ancora nel 2013
De Mauro ha messo in luce i
ritardi rispetto alla media europea. Con il ministero dei Beni
culturali, a questo fine organizzeremo una promozione della lettura dei
libri extra-scolastici, con la Federazione della stampa porteremo i
giornali nelle classi.”
Il
ministero ha fatto anche di più, ha emanato una “circolare De Mauro”,
eleggendo così il linguista da poco scomparso a nume tutelare delle
iniziative di educazione alla lettura
e di didattica delle lingue; il testo della circolare si può leggere
per intero
qui.
Ma
la visione politica di De Mauro sottesa al suo impegno pluridecennale
per l’educazione linguistica è ancora evidentemente fraintesa e continua
a suscitare malumori per chi
pensa che l’educazione linguistica sia un’altra cosa rispetto
all’impegno per la democratizzazione della scuola, e consista
essenzialmente nel buon uso dell’ortografia e non nel miglioramento di
quella facoltà più ampia che è la
literacy, la competenza linguistica. Un campione di questa
distorsione è l’irritazione sfrenata di Ernesto Galli della Loggia sul
Corriere di un paio di giorni fa:
“Se
da due, tre decenni le competenze linguistiche dei giovani italiani si
stanno avviando verso la balbuzie twittesca qualche responsabilità, e
non proprio minima, ce l’ha avuta
proprio anche Tullio De Mauro”.
Per fortuna da anni in Italia su questi temi non si parte per niente da zero.
Il documento che ha scritto Alberto Sobrero per il Giscel (il Gruppo
di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica, che De
Mauro stesso ha fondato e animato per molti anni) replica smontando una a
una le soluzioni del gruppo di Firenze:
“1.Gli
estensori del documento ritengono che debbano essere riviste [le
indicazioni nazionali], per dare grande rilievo all’acquisizione delle
competenze di base, fondamentali
per tutti gli ambiti disciplinari, fissare i traguardi da raggiungere e
proporre tipologie di esercitazioni. In realtà le Indicazioni
contengono tutto questo, anzi sono caratterizzate proprio
dall’insistenza sull’obiettivo del progressivo consolidamento delle
competenze linguistiche e comunicative degli allievi, e dal ribadimento
del ruolo centrale e trasversale – cioè proprio di
tutte le materie – dell’educazione linguistica”.
2.La
seconda proposta contenuta nella lettera-appello è drastica: invoca il
controllo degli apprendimenti mediante ‘l’introduzione di momenti di
seria verifica’: una misura efficace
potrebbe essere, ad esempio, l’introduzione di verifiche nazionali
periodiche durante gli otto anni del primo ciclo”: praticamente, almeno
un test INVALSI all’anno. Un’aperta – e ben poco motivata –
dichiarazione di incapacità, per i docenti del primo ciclo.
3.
Ma è la terza proposta la più grave: chiede “la partecipazione di
docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in
uscita dalla primaria e all’esame di
terza media, utile per stimolare su questi temi il confronto
professionale tra docenti dei vari ordini di scuola”. Tradotto: chi sta
sopra deve controllare chi sta in basso. Se ne deduce che docenti di
scuola secondaria sono superiori non come ordine di scuola,
in quanto successivo alla primaria, ma in quanto a preparazione
professionale, che si esplica nella funzione di controllo dei
subalterni.”
Così
ci sono almeno due aspetti nocivi di questa lettera. Il primo è il
contenuto ambivalente e di fatto reazionario. Varrebbe la pena
riprendere quello che scriveva Pierre Bourdieu
già cinquant’anni fa in Les heritiers
e nella Distinzione
per ammettere come le buone intenzioni dei 600 possano mascherare un
classismo agguerrito. Marco Magni a questo proposito ha scritto un
lungo post che vale la pena riportare quasi per intero:
“Il
vero problema di questa lettera dei 600 sta nel fatto che vi si
considerano la lingua e il suo apprendimento come qualcosa di neutro dal
punto di vista sociale. L’ortografia,
la grammatica, il lessico, come le “buone maniere”, hanno una
connotazione sociale. Il bello scrivere è un segno di distinzione
sociale, che viene assorbito inconsapevolmente prima di tutto
nell’educazione familiare e poi riprodotto nella scuola. Un qualcosa
di connotato socialmente che tuttavia diventa essenziale nella carriera
scolastica così come per l’accesso alle posizioni qualificate del
mercato del lavoro. […] La scuola valorizza la “brillantezza”, la
“creatività” della scrittura, considerandole come qualità
spirituali e disprezza gli aspetti tecnici e materiali dello scrivere,
in ciò confermando il suo pregiudizio élitario. Ma, allora sbagliano i
600 dicendo che il problema è che nel primo ciclo non si fa dettato e
grammatica, perché il problema riguarda invece
l’intero apprendimento della lingua, che dovrebbe dare la loro
importanza agli aspetti “tecnici” e “prosaici” del leggere e dello
scrivere, ma considerandoli, per dirlo sbrigativamente, come un problema
di “empowerment” di coloro – e sono la maggioranza –
che sono esclusi, per la provenienza sociale, dalla cultura delle
élites. Ma ciò può funzionare veramente solo se ortografia e grammatica
vengono contestualizzati dentro la lingua intesa nel suo insieme,
comprendendo l’interesse per il leggere, l’educazione
del gusto estetico, lo spirito critico, ecc. Fare semplicemente “più
dettati”, in assenza di tale contestualizzazione, significherebbe
semplicemente confermare – come denunciava un tempo Don Milani – lo
stigma per coloro che continuano a fare errori di dettato,
semplicemente perché è loro estraneo il senso di ciò che stanno
facendo”.
Il
secondo aspetto discutibile di questa lettera è quella posa
intellettuale che si basa sull’applicazione di un metodo incapace di
tenere conto dei risultati della ricerca sociale
e delle statistiche dell’apprendimento.
Cosa
sappiamo infatti della scuola di ieri e di oggi? Siamo davvero in grado
di parlare con cognizione di causa, dati alla mano, degli effetti
dell’istruzione pubblica sugli studenti
– di oggi come di ieri?
Per
quanto l’Italia sia approdata tardi all’uso di prove standardizzate in
grado di fornire una misura sufficientemente attendibile della
padronanza dell’italiano e della matematica
– la famigerata prova Invalsi – grazie al lavoro dello stesso ministero
dell’istruzione, dell’Istat, dell’Isfol e, a livello internazionale,
dell’Ocse e di Eurostat, è possibile individuare e descrivere alcuni dei
principali problemi del sistema scolastico
italiano, soprattutto in relazione all’uso della lingua.
Cominciamo
col dire, dati Istat alla mano, che nel 1951, all’inizio dell’età
repubblicana, gli analfabeti censiti sono il 12,9 per cento della
popolazione, 17,9 per cento sono
gli alfabeti privi di titolo, 59 per gli italiani con licenza
elementare, 5,9 per cento con licenza media, 3,3 per cento diplomati e 1
per cento laureati. Nel 2001, dopo cinquanta anni di scuola pubblica,
si è passati all’1,5 per cento di analfabeti dichiarati,
9,7 per cento di alfabeti privi di titolo, 25,4 con licenza elementare,
30,1 per cento con licenza media, 25,9 per cento diplomati e 7,5 per
cento laureati.
Non
è un risultato pienamente soddisfacente (a paragone degli altri paesi
sviluppati abbiamo ancora basse percentuali di diplomati e laureati), ma
è pur sempre un cambiamento
epocale, che ha portato a una drastica riduzione dell’analfabetismo e a
un innalzamento considerevole dei livelli di istruzione.
Secondo
le indagini nazionali e internazionali, tuttavia, non tutti i nuovi
cittadini riescono a completare il percorso di istruzione; i dati sulla
“dispersione”, ovvero l’abbandono
precoce della scuola, risultano tra i più alti nell’Unione Europea (15
per cento secondo i dati forniti dall’indagine Eurydice
La lotta all’abbandono precoce dei percorsi di istruzione e formazione in Europa).
Il fenomeno sembra in lieve diminuzione, ma come sottolineato nell’introduzione all’edizione italiana del rapporto
OCSE: Skill Out 2013, i dati sono discordanti e in alcune ricerche raggiungono
il 26 per cento.
Se
si incrociano queste cifre con le informazioni che ci fornisce l’Istat
sulla correlazione tra i risultati scolastici e l’estrazione sociale
della famiglia d’origine (ovvero
con i livelli di istruzione dei genitori e con la loro situazione
lavorativa) allora è chiaro che la scuola italiana rimane una scuola
classista: non riesce ancora – ammesso che voglia davvero essere una
scuola per tutti – a dare un servizio soddisfacente
soprattutto a chi ne ha più bisogno; mentre funziona meglio per chi può
avere maggiore sostegno dalla famiglia d’origine (report Istat
La scuola e le attività educative)
Sempre secondo il rapporto
OCSE: Skill Out 2013 in alcune nazioni più che in altre (tra cui
appunto c’è l’Italia oltre l’Inghilterra, la Germania, la Polonia e gli
Stati Uniti) la condizione sociale ha un impatto significativo sulle
competenze in
literacy.
In
queste nazioni, infatti – si legge nel rapporto – “i figli dei genitori
con un basso livello di istruzione hanno una padronanza decisamente
inferiore rispetto a quelli che
hanno livelli più elevati di istruzione”.
Anche
per questo, dovendo pensare a strategie di ampio respiro per migliorare
i livelli di alfabetizzazione, è imprescindibile coinvolgere gli adulti
innalzando il loro livello
di istruzione e, in generale, le loro competenze di lettura e di
scrittura.
Non
ha senso partire dalle impressioni, insomma: esistono, e possono essere
presi come riferimenti, documenti e esperienze di grande valore. È
utile leggersi
il rapporto finale della commissione sul progetto Piaac, datato 2013.
(Piaac sta per Programme for International Assessment of Adult
Competencies (PIAAC), ossia un’iniziativa dell’Ocse
volta a misurare il livello di possesso di quelle competenze o abilità
chiave nell’elaborazione delle informazioni che sono considerate
essenziali per la piena partecipazione di cittadini adulti al mercato
del lavoro e alla vita sociale di oggi.)
Da
questa ricerca infatti, risulta chiaro che solo il 30 per cento degli
adulti italiani – pur dotati di titoli di studio acquisiti in una scuola
più “tradizionale” – è in possesso
delle competenze necessarie minime per poter vivere e lavorare in modo
adeguato al giorno d’oggi.
Al
di là del giudizio impietoso sugli effetti quantomeno poco duraturi
dell’intero sistema d’istruzione, il dato deve far riflettere
sull’isolamento della scuola, che è chiamata
ad affrontare compiti sempre nuovi in un mondo complesso senza poter
contare sul sostegno di una società incapace di dare il suo contributo.
In
un programma molto articolato, ci sono dei punti qualificanti nel
rapporto Piaac proprio per il dibattito che stiamo affrontando: quando
si propone per esempio di
“valorizzare
e sviluppare le università della terza età, le scuole popolari, i
centri anziani etc. per il mantenimento delle competenze cognitive della
popolazione adulta e soprattutto
senior, per l’invecchiamento attivo e la prevenzione sanitaria. In
Italia c’è ricchezza di organizzazioni/associazioni
non-profit e a partecipazione pubblica che svolgono attività di apprendimento degli adulti e della popolazione senior”
oppure di
“facilitare
l’ingresso di tutti i cittadini (inclusi quelli di recente
immigrazione) nelle reti di informazione, promuovendo la diffusione
delle reti in tutte le famiglie e l’apprendimento
all’uso con formazione tipo e-citizen con il supporto di giovani
tutor; – fare delle sedi scolastiche luoghi dell’apprendimento
culturale collettivo (“Fabbriche della Cultura” sul modello
“olivettiano”) aperti anche il pomeriggio e il sabato per favorire
nuove iniziative di learning by doing, accogliere corsi e
seminari di aggiornamento, agevolare l’accesso alle biblioteche
scolastiche, introducendo anche una piattaforma di
networking delle scuole”,
o ancora di
“avviare
progetti di diffusione della lettura, anche e soprattutto per gli
adulti, nelle biblioteche scolastiche e comunali, permettendo l’acquisto
di libri a prezzi vantaggiosi,
promuovendo o finanziando iniziative culturali”.
Si
capisce bene che c’è una prateria sconfinata oltre il dettato o
l’incremento delle verifiche a scuola per migliorare la competenza
linguistica degli studenti universitari e
degli adulti in generale.
E
possiamo trovare molti altri indici che ci aiutano a comprendere come
le carenze di base anche permanenti non siano causate da un
malfunzionamento della scuola primaria, ma
da diverse ragioni di contesto.
Solo per fare un esempio paradigmatico, avere genitori che leggono rappresenta
un fattore che influenza i comportamenti di lettura dei figli, considerando che
dal 2010 al 2015 si registra una costante diminuzione del già bassissimo numero di lettori (dal 46 per cento al 42 per cento quelli che hanno letto almeno un libro nei dodici mesi precedenti).
Se quindi una delle miopie di questo genere di dibattiti è quella di pensare la scuola come la maggiore se non l’unica responsabile delle carenze sulla literacy, e che gli interventi per riparare il disastro in corso siano i corsi di grammatica di base all’università, si può invece e aguzzare e allargare il nostro sguardo alle molte iniziative che cercano di affrontare in tutta la fase evolutiva la questione del decremento delle abitudini di lettura o dell’analfabetismo di ritorno.
Se quindi una delle miopie di questo genere di dibattiti è quella di pensare la scuola come la maggiore se non l’unica responsabile delle carenze sulla literacy, e che gli interventi per riparare il disastro in corso siano i corsi di grammatica di base all’università, si può invece e aguzzare e allargare il nostro sguardo alle molte iniziative che cercano di affrontare in tutta la fase evolutiva la questione del decremento delle abitudini di lettura o dell’analfabetismo di ritorno.
Solo
tenendo conto che le carenze della scuola sono il riflesso di mancate
politica dell’educazione che riguardano tutta la società, si capisce
bene che le competenze linguistiche
ovviamente non sono l’esito di quello che si fa a scuola, ma di quello
che si vede in tv, o si legge sui giornali, in rete. E a questo punto si
può riconoscere nella formazione degli adulti lo spettro d’analisi come
come quello d’intervento.
Cosa
si può fare? Dal 2013 è stata depositata dai deputati Giancarlo
Giordano, Celeste Costantino e Nicola Fratoianni in commissione cultura
una legge per la promozione alla lettura. È stata elaborata sull’esempio di quella spagnola dal
Forum del libro,
e nonostante abbia trovato nel frattempo l’appoggio di una larghissima
maggioranza e la buona volontà della stessa presidente della commissione
cultura, Flavia Piccoli Nardelli, manca di coperture
finanziarie ed è in stallo.
Cosa
si fa già? In Italia esiste e andrebbe valorizzata, finanziata,
sistematizzata una rete di iniziative di educazione alla lettura: anche
qui il Forum del libro ne aveva fatto
un censimento e si può trovare sul
sito del Cepell, il centro per il libro e la lettura.
La
scuola non deve fare tutto e non può tutto, a partire dall’evidente
condizione di svantaggio in cui opera: grandi masse di analfabeti di
ritorno, scarsamente propensi alla
lettura di giornali e di libri, incapaci di usare in modo consapevole
le tecnologie.
Eppure,
come ha notato sul suo blog Mariangela Galatea Vaglio
in risposta alla lettera dei seicento, alla scuola si chiede di tutto:
“unico presidio dello stato sociale sul territorio, unica
reale interfaccia con le famiglie”, alla scuola si chiede di risolvere o
alleviare problemi che sono quelli della sua funzione primaria,
l’istruzione.
Insieme
ai servizi sociosanitari, le scuole autonome, quelle nate per effetto
del decreto 297 del 1994, si sono ritrovate a rappresentare, all’interno
delle loro comunità, dei
presidi di democrazia. Le istituzioni scolastiche, specialmente quelle
del primo ciclo – proprio negli anni in cui venivano tagliati i
finanziamenti pubblici al settore, prima gradualmente e poi più
drasticamente – si sono impegnate nella lotta alla dispersione
e nel contrasto al disagio sociale, nell’inclusione degli alunni
disabili, nell’educazione linguistica degli alunni stranieri e
nell’accoglienza delle loro famiglie, nella promozione della lettura,
nell’orientamento, nell’educazione all’uso delle tecnologie:
sono diventate in molti paesi e città il centro di una serie di
attività che forse avrebbero potuto essere affidate ad altri soggetti
(le biblioteche? le circoscrizioni? i centri sociali? i centri per
l’impiego?) e che comunque avrebbero richiesto maggiori
investimenti da parte dello stato.
Usare
la scuola come una sorta di agenzia di cittadinanza è compatibile con
il perseguimento di una piena padronanza della lingua italiana?
Probabilmente sì, e per chi scrive
è anche necessario, vista l’urgenza di rompere il circolo vizioso tra
contesto socioeconomico, competenze della famiglia d’origine e
possibilità di raggiungere un livello adeguato di istruzione.
Ma
abbiamo bisogno di una scuola attiva sul territorio, capace di
includere e di educare, ma non possiamo e non vogliamo negare la
necessità di dotare tutti gli alunni delle competenze
di base. Per fare questo, è evidente, occorrono finanziamenti adeguati.
“Poiché sviluppare le competenza della popolazione è costoso”, si legge ancora nel rapporto
OCSE: Skill Out 2013, “le nazioni devono ragionare per priorità
quando ci sono poche risorse, e progettare le proprie politiche connesse
allo sviluppo di competenze in modo che portino i maggiori benefici
possibili all’economia e alla società”. Questo
non significa che ciascuno può stilare un elenco delle priorità, o che
occorre semplicemente incrementare la percentuale di Pil da destinare
all’istruzione.
Significa
principalmente che occorre ripensare a livello nazionale – e non,
quindi, scuola per scuola, all’interno dei singoli territori, o solo per
alcuni ordini o indirizzi
di scuola rispetto ad altri – l’intero sistema dell’istruzione, e non
allo scopo di scrivere un’ennesima riforma, quanto semmai per negoziare
obiettivi di medio e di lungo periodo da perseguire con un largo
consenso sociale.
Anche
per questo non ha senso l’idea di partire dal problema della
“correttezza ortografica e grammaticale” o dalla soluzione del “dettato
ortografico” (un
ulteriore parere convincente è quello di Rita Bortone).
Il
punto non è se le persone siedono a tavola in modo più o meno
appropriato, ma se sono o no in grado di procurarsi da mangiare. Il
problema, per richiamare un termine più volte
usato in precedenza, non è la “grammatica” ma la literacy, cioè la
capacità di comprendere, valutare e usare in maniera consapevole testi
scritti per far parte della società, raggiungere i propri obiettivi e
sviluppare la propria conoscenza e le
proprie potenzialità (definizione dell’Ocse).
Senza un adeguato livello di padronanza in
literacy, ci dicono le ricerche internazionali, le persone non
fanno brutta figura all’università, ma hanno una vita più breve e
maggiori possibilità di ammalarsi, hanno meno senso civico e meno
fiducia negli altri, lavorano di più per guadagnare di
meno.
In
una nazione che non riesce a garantire a tutti il conseguimento
dell’istruzione di base e che, soprattutto, non riesce a dare a tutti le
competenze necessarie al pieno godimento
dei propri diritti e al soddisfacimento dei propri bisogni, è evidente
che dobbiamo avviare una seria riflessione sulla scuola e
sull’università, ma è altrettanto evidente che questa riflessione non
può essere guidata da sentimenti nostalgici, da ideologie
classiste o da interessi di categoria.
Da
dove ricominciare allora? A chi spetta decidere il destino della scuola
e dell’università? E come, con quale metodo? Sembra che l’approccio
usato negli ultimi vent’anni non
abbia sortito grandi effetti. Le richieste provenienti dall’Unione
Europea – tutte dettate dalla necessità di far dialogare tra loro i
diversi sistemi nazionali e di migliorare i risultati di apprendimento
nelle cosiddette competenze chiave – hanno avuto un
impatto considerevole sulle indicazioni nazionali senza ottenere grandi
cambiamenti, non in positivo almeno, a giudicare dal clima che si
respira all’interno delle scuole e delle università.
Proviamo
anche in questo caso a ripartire dalla lezione di Tullio De Mauro, un
intellettuale che ha saputo tenere insieme il lavoro di ricerca, la
didattica e l’impegno nella
scuola e nella società, con la consapevolezza che per fare ricerca
nell’ambito della didattica occorre disporre di una base dati
statisticamente valida e di conoscenze e competenze di altri ambiti
disciplinari. (Qui
si può leggere un ricordo di Emanuela Piemontese che ne mette in luce la complessità di questo approccio politico).
In
fondo si tratta di riconoscere che i problemi educativi riguardano i
diritti primari dei cittadini – di tutti i cittadini, non dei loro
familiari o dei potenziali datori di
lavoro – e che gli apprendimenti incidono direttamente sul corpo delle
persone, come ci insegnano le neuroscienze.
Non
è proprio possibile, quindi, parlarne in modo impressionistico, senza
tener conto della vituperata pedagogia e delle scienze sociali e
psicologiche.
Qualunque
sia la strada che si percorrerà in futuro, ammesso che si voglia
davvero iniziare un percorso di cambiamento, non sarebbe da evitare
l’errore già compiuto nel recente
passato da quei politici che – dimenticandosi di essere anche
accademici e scienziati – hanno introdotto nelle scuole innovazioni di
metodo, nuove strumentazioni tecnologiche (il tablet, la lavagna
elettronica, per dire) nelle scuole, dimenticandosi di indicare
i cambiamenti attesi, senza individuare indicatori attendibili e,
quindi, evitando di sottoporre a una qualche verifica il reale impatto
sugli apprendimenti delle persone.
Non
sarebbe ora di terminare con una tregua e poi con una pace duratura la
guerra santa tra i cosiddetti “disciplinaristi” e i pedagogisti,
iniziata all’incirca vent’anni fa,
quando sono state istituite le Ssis, le Scuole di specializzazione per
l’insegnamento superiore, e che poi è proseguita nei Tfa e nei Pas?
Chi
ha assistito a quelle lezioni ha potuto constatare la separazione
netta, spesso ideologica, tra scienze pedagogiche e altri ambiti
disciplinari, tra chi trasmetteva i contenuti
senza tenere conto dell’uditorio e chi insegnava come insegnare senza
tenere conto della materia. La conseguenza inevitabile è stata ed è
ancora la scarsa qualità di quei corsi, caratterizzati – soprattutto
nell’area umanistica – dalla frammentazione dei saperi
e da un eccesso di specializzazione, una specializzazione tecnicistica,
priva di basi scientifiche condivise.
Allo
stesso modo, tipico di questo approccio ascientifico è l’abuso che è
stato fatto delle prove Invalsi, nate per poter finalmente disporre di
una base dati attendibile e poi
usate, anzi propagandate, come strumento di verifica e di valutazione
degli apprendimenti dei singoli alunni.
È
per questo che uno strumento scientifico – utile a garantire il
controllo democratico di un sistema di istruzione pubblico – è stato
percepito come l’ennesima pratica burocratica
sfruttata per vessare scuole e alunni. Ed è sempre per questo che negli
ultimi anni si sono diffuse pratiche didattiche sempre più focalizzate
sul conseguimento rapido e immediato di obiettivi di apprendimento
misurabili con metodi standardizzati (i test),
a discapito degli approcci più attivi e partecipativi, che ovviamente
richiedono tempi lunghi e condizioni meno stressanti.
Perché
allora, per rimediare a questo deficit di scientificità e a questo
rifiuto di una pedagogia seria e non impressionistica, dettati spesso da
pigrizia e conservatorismo,
non ricominciare proprio dalla ricerca scientifica e dall’insegnamento
universitario? Perché non rompere il più grande e il più classista dei
tabù, quello dell’ineffabilità del docente universitario, chiamato al
grande compito di formare i futuri insegnanti
delle scuole di ogni ordine e grado per gli anni, i decenni e i secoli a
venire, senza che abbia egli stesso ricevuto un’adeguata formazione e,
soprattutto, senza che abbia accesso alle conoscenze e agli strumenti
messi a disposizione ormai da decenni dalle
scienze sociali, psicologiche e pedagogiche?
Nella vicina Svizzera, per esempio,
è normale che i docenti universitari dispongano di una squadra di formatori
esperti in pedagogia e in didattica coi quali fare formazione,
consulenza individuale, coaching e supervisione; ed è altrettanto
normale
che la formazione degli insegnanti sia affidata a una scuola
professionale universitaria in cui lavorano esperti di didattica delle
discipline e non dei ricercatori e docenti di letteratura, di
matematica, ecc.,
prestati temporaneamente alla didattica.
A
partire da qui, dotati di una cultura pedagogica di base e molto
consapevoli dello status quo, che può svilupparsi un ragionamento
importante sulle politiche dell’istruzione
e sull’uso dell’italiano da parte degli studenti anche in ambito
universitario. Così magari in futuro persino prossimo ci saranno più
progetti di lunga durata e meno lettere scritte di getto sull’onda
dell’indignazione.
di Simone Giusti e Christian Raimo pubblicato giovedì, 9 febbraio 2017 da
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