Expo sì, Expo no. Alla fine ci sono andato (a moderare un dibattito) e mi sono convinto che
non porterei mai una classe di ragazzi all’Esposizione mondiale,
la Gardaland di Milano. Chi fa il maestro ha il dovere di chiedersi:
cosa voglio insegnare ai ragazzi? Come voglio parlare loro
del cibo, della terra, dell’aria? Vogliamo dire la verità ai futuri
cittadini o mostrare loro una cartolina patinata del mondo? Ecco, se
quest’ultima è la vostra intenzione, allora potete andare a visitare
Expo 2015.
Troverete un grande gioco:
potrete timbrare il vostro “falso” passaporto (5 euro a documento) ad
ogni Paese che visitate; divertirvi a fare l’henné sulle mani grazie
alle donne ugandesi o della
Mauritania; saltare sulle reti elastiche del padiglione del Brasile;
fare fotografie seduti in una finta tenda berbera; realizzare il vostro
menù greco preferito; scrivere il vostro nome con i chicchi di caffè o
comprare braccialetti ricordo fatti con i semi.
Ma non chiedetevi chi lavora quel caffè;
non domandatevi quanti pozzi sono stati distrutti nei terreni dei
territori occupati della Palestina; non azzardatevi a capire chi lavora
nei campi
del Mozambico o del Burundi; non iniziate a farvi domande sui
landgrabbing, i ladri di terra.
Expo non è il posto dove farvi questi interrogativi e nemmeno dove trovare risposte.
Girando tra i padiglioni dell’esposizione ho avuto la sensazione di aver fatto qualche errore: forse ho sbagliato, durante le lezioni di scienze, a raccontare ai miei ragazzi che il consumo giornaliero di acqua in Africa è di 30 litri rispetto ai 237 in Italia. Probabilmente ho raccontato una frottola quando ho parlato loro dei conflitti per l’oro blu. Devo aver letto male i dati sul Kenya dove il benessere di pochi (2%), è pagato con la miseria di molti (circa il 50% della popolazione vive sotto il livello di povertà). Devo aver visto un altro film finora perché ad Expo non ho trovato una sola riga, una sola informazione che raccontasse alle migliaia di persone che passano in quei padiglioni, il dramma che vivono le popolazioni africane.
Girando tra i padiglioni dell’esposizione ho avuto la sensazione di aver fatto qualche errore: forse ho sbagliato, durante le lezioni di scienze, a raccontare ai miei ragazzi che il consumo giornaliero di acqua in Africa è di 30 litri rispetto ai 237 in Italia. Probabilmente ho raccontato una frottola quando ho parlato loro dei conflitti per l’oro blu. Devo aver letto male i dati sul Kenya dove il benessere di pochi (2%), è pagato con la miseria di molti (circa il 50% della popolazione vive sotto il livello di povertà). Devo aver visto un altro film finora perché ad Expo non ho trovato una sola riga, una sola informazione che raccontasse alle migliaia di persone che passano in quei padiglioni, il dramma che vivono le popolazioni africane.
Sono partito dalla Palestina:
non un’immagine, una riga,
una fotografia dell’occupazione. Ho chiesto come mai e mi è stato
risposto che “non era opportuno”. Ho pensato che la scarsità di
informazioni riguardasse solo quel Paese. Ho provato ad entrare negli
spazi dell’Eritrea, della Giordania, della Mauritania: nulla
di più che una sorta di mercatino dei prodotti locali, qualche
bandiera, poche fotografie.
Zero informazioni.
Ho pensato che fosse impossibile ma nemmeno in Algeria ho trovato
qualche spiegazione se non una bella esposizione di vasellame e di abiti
tradizionali. Mai un solo cenno
ai problemi di un Paese. A Expo il mondo è tutto bello: l’importante è non sapere.
Non ho imparato nulla visitando il padiglione del Burundi, del Ruanda, dell’Uganda.
Nello Yemen hanno persino tentato, come in ogni mercato, di vendermi
tre braccialetti con la tecnica dei venditori di strada: “Provali. Quale
ti piace? Ti facciamo uno sconto”. Eppure i bambini e i ragazzi
che lavorano nelle piantagioni di cacao africane
sarebbero, secondo alcune stime, più di 200mila di età compresa tra i
cinque e i quindici anni, vittime di una vera e propria “tratta”. L’
Unicef ricorda che 150 milioni di bambini tra i 5 e
i 14 anni nei Paesi in via di sviluppo, circa il 16% di tutti i bambini
e i ragazzi in quella fascia di età, sono coinvolti nel lavoro
minorile.
A citare i problemi della terra ci ha pensato
il Vaticano, presente ad Expo: 330 metri quadrati
per dire ai cittadini attraverso una mostra fotografica e un tavolo
interattivo che esiste il problema della sete, dell’ingiustizia, della
fame. Tutto per slogan, nulla di più. E’ a quel punto che mi è venuta
una curiosità, alla fine della rapida spiegazione dell’addetto della
Santa Sede:
“Scusi, quanto è costata la realizzazione?”. Risposta: “Mi dispiace non lo so”. Cerco la risposta via Twitter all’account del Vaticano (@ExpoSantaSede) che mi rimanda ad un articolo che parla
della “sobrietà del padiglione”, secondo le parole del cardinale Gianfranco Ravasi.
Viene da fare due conti: un’organizzazione italiana mi ha riferito di
aver speso per partecipare a Expo
(per organizzare eventi, padiglione, personale) circa 700 mila euro. E
il Vaticano quanto avrà sborsato per dire che c’è la fame, la sete e
l’ingiustizia?
3 milioni di euro equamente ripartiti tra Santa Sede, Cei, Diocesi di
Milano e Cattolica Assicurazioni che ha offerto il suo contributo per
l’allestimento delle opere d’arte.
Alle 21, stop. Ho deciso: meglio non portare i bambini a Expo. Che capirebbero del cibo, dello spreco, delle risorse?
Un solo consiglio: se proprio ci andate,
vale la pena visitare il padiglione zero e quelli della Svizzera e dei Brunei. Naturalmente non li ho visti tutti, potrebbero essercene altri all’altezza di quest’ultimi. E non ho nemmeno timbrato
il passaporto.
Un’ultima
osservazione: non cercate un’edicola o una libreria (magari dedicata al
cibo) a Expo. In una giornata non le ho trovate. Se le avete viste
avvisatemi. […]
(di Alex Corlazzoli, maestro e giornalista / 27 agosto 2015 / ilfattoquotidiano.it)
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