Al
ritorno dalle vacanze due ragazzi su dieci abbandonano la scuola.
Accade ogni anno, nel silenzio della routine. Un esodo dovuto alla
povertà, all’emergenza economica che flagella il paese dal 2008, e anche
dalla crisi di senso che ha travolto l’istruzione pubblica. È un buco
nero che si allarga tra i 10 e i 16 anni, e riguarda in particolar modo
il Sud. Né lo Stato, né il terzo settore riescono a fermare questa
galoppata silenziosa che spinge sempre più adolescenti a lasciare gli
studi e a non conseguire un titolo di studio che non sia quello della
licenza di scuola media inferiore.
Il
profilo di questo mondo sommerso lo ha fornito ieri la ricerca «Lost»,
realizzata dalla Fondazione Giovanni Agnelli, WeWorld Intervita,
Associazione Bruno Trentin in collaborazione con Csvnet, condotta in 248
scuole e 229 enti nelle città di Roma, Napoli, Milano e Palermo. Il
numero dei ragazzi che in Italia lasciano i banchi di scuola
prematuramente è pari al 17%, la media europea è all’11,9%. La
situazione peggiora al Sud e nelle isole. In Sardegna il tasso di
abbandono è al 25,5%, in Sicilia al 24,8%, in Campania al 21,8%, in
Puglia al 17,7%. In Molise la percentuale di abbandono è invece al 10%.
La Valle d’Aosta è al 21,8%.
Sono
dati convergenti con quelli diffusi da Save the Children a fine
settembre: in Italia è in forte aumento la povertà minorile, con oltre 1
milione e 400mila minori in povertà assoluta e quasi 2,4 milioni in
povertà relativa. Dal 2012 al 2013, l’anno peggiore della crisi, il
numero di minori in povertà assoluta è aumentato di 400mila unità,
mentre quello della povertà relativa è aumentato di 300mila unità nello
stesso anno. La descolarizzazione è l’effetto della «povertà educativa»
indotta dall’inesistenza dei servizi per la prima infanzia, dall’aumento
della povertà e dal taglio ai fondi per la scuola imposti da Berlusconi
(8,4 miliardi di euro dal 2008).
La
situazione potrebbe essere peggiore. Il tasso degli abbandoni
scolastici, scrive il curatore della ricerca «Lost» Daniele Checchi, è
stato ricavato dai dati ufficiali di Eurostat che collocano il nostro
paese al 17% del tasso dei cosiddetti «early school leavers» per il
2013, con una significativa variabilità regionale. È un dato che
registra una diminuzione di otto punti rispetto al 2000, quando il tasso
era al 25,3%. Sembrerebbe che l’Italia sia seriamente impegnata sul
fronte della lotta contro gli abbandoni scolastici per raggiungere il
tasso del 10% stabilito dalla strategia Europa 2020.
Così,
purtroppo, non è se si incrociano i dati anagrafici dell’Istat con
quelli sugli iscritti e i diplomati forniti dalle scuole e quelli sul
rapporto tra diplomati e popolazione nella fascia d’età fino ai 19 anni.
Il 23,8% della popolazione italiana non raggiunge un titolo di scuola secondaria che dia l’accesso all’università. Prima di arrivare all’esame di maturità, quasi un quarto degli studenti iscritti lascia dunque la scuola. Questo avviene in prevalenza negli istituti professionali, al primo anno, e negli istituti tecnici. Un
aumento degli abbandoni è stato registrato in tutti gli ordini di
scuola, al termine del biennio quando, com’è noto, cessa l’obbligo di
istruzione.
Emerge
anche una stima sulle conseguenze economiche generate dall’esodo: tra
il 1,4% e il 6,8% del Pil, tra 21 e 106 miliardi di euro, a seconda del
tasso di crescita del Pil. Con la previsione di una recessione
pluriennale (siamo al terzo anno, ormai) è plausibile che l’esodo
scolastico continuerà ad aumentare. La ricerca attesta la crescente
sfiducia degli insegnanti sulla possibilità di contrastare il problema
della dispersione, perora l’intervento del privato sociale (il «Terzo
Settore» investe 60 milioni di euro all’anno), registra uno scarso
coordinamento con il Miur (55 i milioni investiti per arginare,
inutilmente, l’esodo). In questo quadro l’Ong WeWorld Intervita promuove
il programma Frequenza200 per riportare a scuola 6 mila ragazzi entro
il 2016. Il recupero della dispersione resta comunque una ferita aperta.
L’Anief-Confedir sostiene che, dall’inizio della crisi nel 2010, i
fondi siano stati tagliati, soprattutto nelle aree «a rischio educativo»
dove sono passati da 53 milioni di euro a 18 milioni, il 65% in meno.
Tutto questo mentre aumentano i «neet»
[not (engaged) in education, employment or training], l’emigrazione
giovanile, i precari che sono le principali vittime della crisi.
«Il
tentativo di appaltare una parte cospicua degli interventi sulla
dispersione a soggetti esterni alla scuola — afferma Mimmo Pantaleo
(Flc Cgil)- dimostrano una politica sbagliata, inconcludente e a favore
degli interessi dei soliti noti. Se non ci saranno risposte anche su
questo tema, e a fronte dei tagli a scuola e ricerca che il governo
intende fare nella legge di stabilità continueremo la mobilitazione fino
allo sciopero generale».
(Roberto Ciccarelli, il manifesto, 14.10.2014)
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