(articolo di Elvio Pasca da http://www.stranieriinitalia.it/ "Il portale dei nuovi cittadini" del 13 set 2011)
"Basta parlare solo di problemi, in tantissime scuole i figli degli immigrati sono una ricchezza. Bisogna sdrammatizzare e creare dialogo tra insegnanti e genitori, italiani e stranieri". Intervista a Vinicio Ongini, maestro, scrittore ed esperto di intercultura, autore del libro “Noi domani. Un viaggio nella scuola multiculturale” edito da Laterza (2011).
Roma – 13 settembre 2011 – La campanella suona per settecentomila figli di immigrati. C’è chi ne parla come un problema e si mette le mani nei capelli e chi invece supera le ansie, guarda oltre, scopre quanto questi ragazzi regalano alla nostra scuola e all’Italia.
Vinicio Ongini appartiene a questa forse minoritaria, ma lungimirante categoria. Maestro per vent’anni, esperto dell’ Ufficio Integrazione alunni stranieri del Ministero dell'Istruzione e autore di molti libri dedicati al confronto tra culture tra i banchi, ha pubblicato qualche giorno fa “Noi domani. Un viaggio nella scuola multiculturale”.
È la testimonianza di chi ha toccato con mano, dalle Alpi alla Sicilia, come funziona la nostra scuola a colori. Ha parlato con i suoi protagonisti, insegnanti, genitori e alunni, mosso da una domanda: “Cosa si guadagna, se si guadagna, con gli alunni stranieri a scuola?”.
Al termine del suo viaggio, guai a parlargli di “scuole ghetto”. “È un termine inventato da chi è fuori dalle aule. Si parla sempre di pochi casi limite, dove le cose non funzionano. Si dimenticano le scuole dove tutto procede molto bene. Io ne ho viste tante, ma non sono conosciute perché non sono nell’occhio del ciclone”.
“Il paesaggio multiculturale della scuola italiana – racconta Ongini - è caratterizzato da diversi anni da una presenza diffusa anche in luoghi periferici e piccioli centri. C’è poi una pluralità di cittadinanze che è una costante degli ultimi anni e che differenzia la nostra situazione da quella di altri paesi europei dove c’è meno varietà. Abbiamo classi a mosaico, ad Arlecchino”.
Ci sono novità in questo panorama?
“Negli ultimi due anni c’è un evidente rallentamento dell’aumento delle presenze, probabilmente a causa della crisi economica che ha frenato anche l’immigrazione. Sbagliati quindi i titoli dei giornali che gridano sempre al boom. Inoltre, aumentano gli alunni nati in Italia, le cosiddette seconde generazioni. Sono ormai il 50% dei bambini non italiani alle primarie, e l’80% di quelli iscritti alle scuole d’infanzia”.
Perché è un dato così importante?
Perché si contrappone all’enfasi, al racconto ansiogeno sul fatto che gli alunni immigrai sono troppi e che ci vogliono tetti e redistribuzioni. Quando questi ragazzi cresciuti in Italia arrivano a scuola e già parlano l’italiano, situazione ben diversa da quelli appena arrivati per i quali servono invece iniziative speciali, soprattutto per l’insegnamento della lingua”.
Insomma se la legge sulla cittadinanza fosse diversa probabilmente non ci sarebbe più tanto sensazionalismo sui figli degli immigrati nelle scuole italiane?
“Ci sarebbe un forte ridimensionamento mediatico del fenomeno. Se questi bambini diventassero subito cittadini italiani non rientrerebbero nemmeno nelle statistiche sulle quali tanto si discute ogni anno. In Francia, la percentuale di alunni non francesi è più bassa che in Italia, ma solo perché lì c’è una diversa legge sulla cittadinanza”.
Si parla spesso di bambini, poco degli adolescenti, hanno esigenze diverse?
Negli ultimi anni sono aumentati sensibilmente gli alunni non italiani iscritti alle superiori, che hanno una più alta la percentuale di nati all’estero e meriterebbero maggiore attenzione. C’è da chiedersi, ad esempio perché la maggior parte di loro sceglie istituti tecnico professionali: è la via più facile? C’è un adeguato orientamento? Le famiglie decidono da sole?
Quanto conta il rapporto tra la scuola e la famiglie?
È un aspetto importantissimo e purtroppo sottovalutato. In giro per l’Italia ho visto scuole che funzionano bene con percentuali molto alte di alunni non italiani, e questo anche perchè sono state coinvolte le famiglie. Alla scuola Manin, del rione Esquilino a Roma, l’associazione dei genitori è formata da italiani e immigrati. Vengono coinvolti in modo concreto nella cura della scuola, ad esempio collaborando anche manualmente all’allestimento delle aule laboratorio. È un modo per far passare il messaggio che la scuola è una casa comune.
Secondo lei questi ragazzi portano qualcosa in più alla scuola italiana?
È la domanda che ho posto a tanti insegnanti, dalla Valle del Po a Palermo, e la risposta che mi è stata data è che tutta l’Italia ci guadagna. Mi hanno raccontato, ad esempio, che tra gli studenti stranieri c’è un impegno maggiore e anche le loro famiglie sembrano dare più importanza allo studio rispetto agli italiani di oggi. È una atteggiamento simile a quello che c’era in Italia qualche decennio fa e che ora sembra perduto. Ci costringe a chiederci cosa è diventata per noi la scuola.
Ci sono differenze “vincenti” solo nella disciplina? O anche nell’ apprendimento?
Gli esempi sono tanti. Alcune maestre di montagna si stupivano della disponibilità degli alunni stranieri nel pulire e mettere a posto i banchi dopo la lezione, mi hanno parlato di bambini molto responsabili, che magari già avevano le chiavi di casa. Ci sono poi aspetti prettamente scolastici, come la maggiore predisposizione ad imparare le lingue straniere, che mi è stata testimoniata da diversi insegnanti.
E la storia dei cinesi più bravi con la matematica è vera?
Molte maestre hanno notato che i bambini cinesi sono particolarmente portati per i numeri. È probabilmente una questione di metodo, qualche anno fa alcuni licei americani decisero di adottare i libri di testo di matematica diffusi in Cina. Perchè, al di là questo caso specifico, non usiamo anche noi queste capacità? Perché non ci scambiamo saperi soprattutto nei campi in cui siamo più deboli?
Le risorse per gestire una scuola multiculturale ci sono?
Le risorse scarseggiano e in questi tempi è inevitabile. Per finanziare molti progetti si fa affidamento al fondo per le aree a forte processo migratorio. Al di là di questo credo che andrebbe creato anche un sistema per poter inviare gli insegnanti e i dirigenti più bravi e motivati nelle scuole dove sarebbero più utili. Poi serve formazione diffusa, non solo degli insegnanti, ma soprattutto dei presidi, che sono quelli che devono parlare con le altre scuole, creare iniziative con le famiglie, coordinarsi con gli enti locali.
Quali sono le qualità principali indispensabili per lavorare in scuole con molti alunni non italiani?
Serve consapevolezza del fatto che all’inizio potrà esserci un inevitabile disorientamento, ma poi tutto potrà funzionare e diventerà un punto di forza. Bisogna sdrammatizzare, cercare e creare dialogo tra insegnanti e genitori, italiani e stranieri. Le scuole che oggi chiamiamo “ghetti” sono diventate così perchè i genitori italiani hanno avuto paura e non hanno iscritto i loro figli. Se qualcuno avesse parlato con loro, placandone le ansie e mostrando i vantaggi di una scuola multiculturale, non saremmo arrivati alle emergenze.
Una volta, però, che il danno è fatto, serve o no il tetto del trenta per cento?
Io mi astengo dal valutare una scelta del ministero dell’Istruzione, presso cui lavoro. Vorrei però ricordare che già nel 2006 una circolare invitava le scuole a fare un’equa distribuzione degli alunni non italiani, a mettersi in rete, ad affrontare insieme questo fenomeno e a coinvolgere le famiglie. Ora siamo al cosiddetto “tetto”, che però è flessibile come dimostrano le tantissime deroghe approvate in tutta Italia. Io smetterei di parlare di numeri. Concentriamoci sulle azioni.
Elvio Pasca
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