26 lug 2017

don milani, un prete pop


Storie. Ci sono voluti i cinquant’anni dalla morte per il suo ritorno da protagonista. Incentrato sulla figura del pievano di Barbiana va in scena a San Miniato «Vangelo secondo Lorenzo». Uno spettacolo di grande respiro, scritto da Leo Muscato assieme a Laura Perini


Ci sono voluti 50 anni dalla sua morte, per questo ritorno da protagonista della figura di don Lorenzo Milani, ma bisogna dire che nonostante le molte sbracature (e qualche professione tardiva e improbabile di ammirazione sopra le righe), perfino negli spettacoli che ne ripercorrono e ripropongono ora la storia, la figura del sacerdote toscano esce limpida e fortissima, come era apparsa del resto già allora a qualche intellettuale: da La Pira a qualche giornalista cattolico di sinistra» inguattato e isolato magari nei culturali della Rai, o a persone anch’esse notevoli come il maestro di Piadena Mario Lodi, o il grande Giorgio Pecorini (sull’Europeo e poi sull’Espresso, ma che poi anche i nostri lettori hanno avuto modo di apprezzare).

Ma era soprattutto alla «base» che le parole di don Milani parlavano: a giovani e giovanissimi, magari appena adolescenti, che sentivano le potenzialità elettriche del Concilio Vaticano II e anche la pachidermica mummificazione del sistema sovietico, ma poi trovavano poche rispondenze, o assai limitate o d’élite, nella vita quotidiana che si trovavano a intraprendere. Il ’68 era ancora di là da venire, ma sicuramente, quando arrivò, aveva nelle tasche di molti L’obbedienza non è più una virtù [il testo] [la risposta ai cappellani]: bellissimo motto, ma che conteneva oltre alla lucidità di padre Ernesto Balducci, la tragedia vera del «caso Fabbrini», primo obbiettore di coscienza in Italia, ripetutamente processato per «diserzione» con la benedizione dei santi «cappellani militari», che solo oggi rischiano finalmente di perdere quella qualifica medievale! Ma soprattutto, baedeker fondamentale di ogni contestazione, tutti conoscevano Lettera a una professoressa. Un libro bianco e austero, che conteneva in quelle pagine semplicissime e di immediata comprensibilità, una analisi abissale della scuola italiana, una istituzione che il boom appena trascorso aveva voluto «rinnovare» e modernizzare, con lo storico passaggio alla scuola media unificata varata solo un pugno d’anni prima che il libro nascesse a Barbiana. Un libro quella Lettera impietosa, che la scuola riformata faceva a pezzi, scoprendone la funzione di classe innegabile, con la selezione impietosa che andava a compiere, attraverso immagini tanto semplici e suggestive che sono andate a costituire il dna di quella generazione: come l’ingiustizia fintamente egualitaria di dare strumenti e possibilità in misura «uguale» a tutti i ragazzi, che uguali però non erano affatto, per famiglia, censo e cultura. E conteneva anche, la Lettera di don Milani e dei suoi scolari di Barbiana, cose meno facili da capire e accettare, a proposito di egualitarismo radicale. Come l’approvazione di certe regole maoiste che contemplavano in Cina davanti a reati sociali gravi, pene ancor più gravi e mutilazioni definitive. Una moralità senza mediazioni, difficile da accettare in una cultura borghese, ma che si fondava, e quindi legittimava, nella vita miserrima di un gruppo di ragazzi in quello spigolo di Mugello dove Barbiana diventò scuola del mondo.

Nella sua pratica quotidiana, era una vera utopia che prendeva corpo, e che avrebbe dato linfa, talvolta inconsapevole, a tante coscienze, dopo. Non fu amato quel prete di campagna, nato da famiglia intellettuale e borghese, e poi convertito a quella povertà assoluta che lo rendeva libero e inattaccabile. Soprattutto dall’ordine costituito delle tremende gerarchie ecclesiastiche che in ogni modo cercarono di ostacolarlo. E solo una malattia terribile riuscì a portarsi via. Fanno sorridere oggi (ma neanche tanto) gli eredi di quelle stesse gerarchie, in prima fila ora nel riconoscerne la virtù (la disobbedienza?), profondendosi in complimenti e apprezzamenti. Certo costretti dall’indomabile papa Francesco, che un mese fa, proprio nel cinquantenario della morte, è andato a Barbiana a pregare per don Milani. «Da papa» ha sottolineato a proposito di una propria frase. Ma Bergoglio si sa, è un’eccezione, anche in Vaticano dove continua a vivere, quasi da estraneo, nella foresteria per gli ospiti. E che prima di occuparsi di Barbiana aveva identificato un altro precedente scandaloso cui votarsi.

Anzi si prepara a dichiarare addirittura «santo» monsignor Romero, l’arcivescovo del Salvador fucilato sull’altare dagli squadroni della morte di qualche organismo panamericano. Nello stesso tempo però, il cinquantenario ha spinto anche Mondadori a raccogliere in due meridiani tutti gli scritti di don Milani. A questo punto, il pievano di Barbiana ha cominciato a prendere corpo anche su qualche palcoscenico. E l’impegno maggiore è quello cui coraggiosamente si è votato quest’anno l’Istituto del dramma popolare di San Miniato, che ha rotto gli indugi di altre occasioni, e presenta in questi giorni Vangelo secondo Lorenzo (una replica ancora stasera alle 21.15 nella chiesa di san Francesco, e poi in tournée toscana la primavera prossima, e nell’autunno 2018 in tournée nazionale).

È uno spettacolo di grande respiro, scritto (a quattro mani assieme a Laura Perini) da Leo Muscato che ne è anche regista. Del testo originale, solo la metà va in scena, con gli episodi che riguardano la parrocchia di Calenzano e quella di Barbiana: l’insieme potrebbe essere destinato a una narrazione televisiva. E non c’è da scandalizzarsi: anche questa anticipazione da palcoscenico è dichiaratamente pop, nel senso originale di «popolare», perché vuol far conoscere al più ampio pubblico un padre semisconosciuto e per tanto tempo osteggiato della nostra cultura. Un contenitore austero (canonica, chiesa, casa del popolo) che cambia a vista, mentre il bravissimo Alex Cendron, nei panni sempre talari del protagonista, affronta le tante stazioni di questa umanissima quanto rigorosa via crucis. Attorno a lui, partecipazioni molto sensate: quelle dell’Arca Azzura di Ugo Chiti (coproduttori assieme a Elsinor e al Metastasio), da sempre fautori di un teatro che da paesano afferma verità universali, e altri attori di provenienza diversa come Alessandro Baldinotti o Andrea Mascagni. Ma soprattutto una scatenata banda di ragazzi, gli allievi primari di Barbiana, che hanno divertito e commosso anche chi allora quella condizione l’ha vissuta davvero.

Gianfranco Capitta, il manifesto, 26 luglio 2017

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