«Alla scuola ebraica non si riusciva a
immaginare che ci fosse qualcuno che non facesse domande: sarebbe stato
un allievo inutile. Invece, chi non era d’accordo con qualcosa che aveva
spiegato un professore, alla fine della lezione lo poteva dire e gli
era richiesto di tenere lui stesso una lezione, alla sua classe o a
quelle vicine, con la sua bibliografia o con una bibliografia che gli
suggeriva il professore: insomma era una scuola di alto profilo».
La scuola di cui parla Giacometta Limentani fu fondata in 79 giorni
dalla comunità ebraica di Roma, dopo il varo delle le leggi razziste del
settembre 1938, con cui il governo fascista espulse dalla scuola
ragazzi e insegnanti ebrei.Lì insegnò per la prima volta Emma Castelnuovo, cacciata dalla scuola pubblica appena vinto il concorso. Ce ne parlano Carla Degli Esposti e Nicoletta Lanciano nella prima biografia dedicata a una delle più grandi innovatrici di didattica della matematica del mondo. Leggendola si comprende perché le grandi rivoluzioni in campo educativo siano così rare. Nel corso di un secolo si contano sulle dita delle mani perché, per rovesciare con audacia e radicalità pensieri, concezioni e comportamenti stratificati nel tempo e in quel bradipo abitudinario a cui troppe volte somiglia la scuola, ci vogliono condizioni eccezionali e un’audacia individuale visionaria.
Emma Castelnuovo, laica e non credente, era profondamente impregnata dell’aspetto più affascinante della cultura ebraica, che consiste nel non darsi tregua nel moltiplicare continuamente le domande. E la prima domanda che si pose la giovane Emma, che per il suo muoversi agitato veniva spesso scambiata per allieva, riguardava il come animare la curiosità dei ragazzi, di tutti i ragazzi, trasmettendogli l’idea che la scoperta delle verità matematiche era qualcosa che si faceva per se stessi.
Suo padre Guido Castelnuovo, di indole serena, nei terribili anni della guerra era angustiato dall’idea che gli studenti che frequentavano i suoi corsi integrativi di cultura matematica non potessero poi laurearsi. Riuscì a trovare un Istituto in Svizzera, disponibile a offrire un diploma legale a distanza agli allievi dell’università semiclandestina, a cui era riuscito a dar vita insieme a Guido Coen. Semiclandestina ma di alto profilo, dato che vi insegnavano Bisconcini, Cacciapuoti, Enriques, Lucaroni, “che teneva Euclide in una mano e Spinoza nell’altra”. L’angustia del padre ci dice quanto, nella famiglia Castelnuovo, cultura e istruzione fossero ritenute necessarie come e il pane.
Nata nel 1913, la figlia di Guido visse in famiglia lo spirito innovatore di chi all’inizio del secolo propugnava un’idea di cultura in cui scienza e arti umane intrecciassero le loro domande, avendo ben chiara l’idea che la diffusione di una cultura aperta al progresso e consapevole delle contraddizioni sociali fosse condizione indispensabile per lo sviluppo della democrazia. Chi maggiormente contribuì alla sua formazione fu certamente Federigo Enriques, suo zio, che la spronò a pubblicare, già nel ’48, il suo primo libro pazzo, come lei usava chiamarlo, che rovesciava radicalmente il tradizionale modo di insegnare la matematica, tuttora largamente e tristemente praticato.
La genesi de “La geometria intuitiva” è assai interessante perché, partendo dalla noia che avvertiva nei ragazzi, la giovane Castelnuovo comprende che deve cambiare tutto e pensa che la geometria possa “darci l’appoggio”, come usava dire. Facendo proprio il pensiero del matematico svizzero Jacob Steiner, uno spirito ribelle che a 18 anni scappò di casa per andare a studiare da Heinrich Pestalozzi, sosteneva infatti che “il calcolo sostituisce il pensiero, mentre la geometria stimola il pensiero”.
“Io mi rifaccio al concetto di intuire che è precisato dalla pedagogia pestalozziana, cioè intuizione intesa come costruzione dove l’attenzione non si rivolga tanto all’oggetto ma alla sua variazione, a un’azione, a una operazione con l’oggetto stesso”.
Lei, che si muoveva incessantemente per la classe e sosteneva che non si può insegnare stando seduti, faceva letteralmente uscire le figure dai libri perché i ragazzi stessi, con elastici, spaghi e stecchette mettessero in movimento mani e pensieri, scambiandosi congetture ed ipotesi in un serrato confronto che lei continuamente animava, allargando lo sguardo all’arte, all’architettura, alle varietà vegetali; a tutti quegli elementi della realtà di cui è appassionante scovare le leggi matematiche.
Qui sta il cuore della sua visione dinamica delle figure e la sua incessante ricerca nel costruire strumenti semplici per comprendere relazioni complesse e permettere a tutti di osservare costanti e varianti.
“Un libro tradizionale comincia dalle definizioni e dai concetti generali” ma “non dimentichiamoci che ciascuna delle nostre definizioni è il risultato di un lavoro durato secoli.” Il rischio è che “il professore farà fare degli esercizi su delle definizioni che lo studente non avrà assimilato, che lui non avrà condotto a scoprire e questo è assurdo”, scrive nel 1950 sui Cahiers Pédagogique. “Io non dò nessuna definizione, l’alunno dovrà sentire lui stesso la necessità delle definizioni, dovrà formulare lui stesso le definizioni”. In questo articolo c’è la sua ferma posizione contro i manuali ricalcati da Euclide che partono da definizioni astratte e il fondamento della sua rivoluzione didattica: una matematica per imparare a ragionare, per imparare a esprimere e a dare forma ai propri pensieri, una geometria che renda consapevoli che si può guardare la realtà “con gli occhi della mente”, scovandone le innumerevoli connessioni, come la invitava a fare da giovane Federigo Enriques, che nel 1906 diede vita, da matematico, alla Società Italiana di Studi filosofici.
Seguono nel libro i racconti delle tante avventure di Emma Castelnuovo nel mondo, tra cui l’esilarante episodio in cui la vediamo contrapporsi energicamente al matematico francese Jean Dieudonné del gruppo Bourbaki che nel 1959, negli anni della febbre insiemistica, in una sua relazione propugnò lo slogan “Abbasso il triangolo”. Dalla sala si alzò in piedi lei, donna e professoressa di scuola media in quel consesso maschile e universitario, e lo interruppe dicendo: “Il tavolo da cui vengono pronunciate queste frasi ed esposte queste considerazioni teoriche non reggerebbe e tutte le vostre carte volerebbero a terra se non avesse quei triangoli molto concreti sotto a sorreggerlo!”.
Così era Emma Castelnuovo: radicale nelle sue scelte, intraprendente e impertinente. La sua lungimiranza fu tale che molte sue invenzioni didattiche vengono ora avvalorate dai più recenti studi nel campo delle neuroscienze, che confermano quanto lavorare sulle trasformazioni continue con materiali dinamici aiuti chi ha maggiori difficoltà a costruire e a far propri i concetti di struttura e classificazione.
Un capitolo della biografia racconta la puntigliosità e precisione con cui redigeva i suoi testi cercando concisione, chiarezza e bellezza, perché le sue proposte didattiche erano sempre accompagnate da immagini suggestive e non banali. C’è un libro che Emma Castelnuovo ha scritto e riscritto per tutta la vita, di cui nel 2005, a 92 anni, ha voluto curare un’ulteriore edizione. E’ l’eredità più preziosa che lascia alla scuola, perché i 6 volumi intitolati semplicemente “La matematica” (La Nuova Italia), sono attualissimi e insuperati tra i libri di testo per la scuola media, per la genialità delle proposte e la capacità di offrire percorsi che aprirono la mente. Purtroppo sono tenuti nascosti dalle sciagurate scelte dell’editoria scolastica, che spesso privilegia novità redditizie alla qualità. Se conoscete qualche insegnante di matematica regalateglieli. Sono un dono prezioso per chi educa e per i ragazzi, che potranno incontrare un modo aperto e appassionante di provare a comprendere il mondo attraverso la matematica.
Franco Lorenzoni - 4 dicembre 2016
Il Sole24Ore - Domenica
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