Nel suo articolo pubblicato su Micromega, Marco Magni ha recensito il libro di Marco Romito "Una
scuola di classe (orientamento e diseguaglianza nelle transizioni
scolastiche)" (Guerini e associati, 2016, pp 287).
L'indagine, frutto di un'inchiesta condotta attraverso il metodo
etnografico (ovvero mediante l’osservazione diretta prolungata
dall’interno dell’oggetto di studio) in due scuole medie della periferia
milanese, giunge alla conclusione che la diseguaglianza,
oltre ad essere il riflesso delle differenze economiche e sociali, viene consolidata nelle istituzioni scolastiche dalla didattica e dalla valutazione scolastica.
Come la scuola rafforza le diseguaglianze (di Marco Magni)
Il rimosso della diseguaglianza
I libri dedicati alla scuola ne ignorano quasi sempre il carattere
sociale. I tratti dominanti del discorso sono costituiti, da un lato
dall’idealizzazione del merito, dell’efficienza, della razionale
allocazione della spesa, della libertà di scelta tra pubblico e privato
o, per converso, dalla istanza della difesa della natura “pubblica” e
democratica della scuola, dalla valorizzazione della passione per
l’insegnamento e della sua (platonica) dimensione erotica. La
diseguaglianza sociale rimane normalmente, perlomeno nella letteratura
più diffusa e di successo, una glossa o una nota a margine. Una
rimozione che riguarda trasversalmente destra e sinistra, anche se cifre
molto vistose ci dicono che stiamo vivendo, nel campo dell’istruzione,
un’epoca di crescita delle differenze sociali: i neoiscritti
all’università provenienti dai tecnici e i professionali sono diminuiti,
negli ultimi 10 anni, dal 40% al 26.4%.
Quando viene messa al centro del discorso, si fa della
diseguaglianza nel campo dell’educazione un uso strumentale: molte
pubblicazioni caratterizzate da un’impostazione economica ed
economicistica considerano le evidenze della differenza di risultati
scolastici degli studenti appartenenti alle diverse classi sociali come
la prova della natura inefficiente e parassitaria dell’educazione
pubblica, e la dimostrazione della necessità di riforme “meritocratiche”
– come la “Buona scuola”, oramai in fase di implementazione avanzata –
che modifichino in senso privatistico e manageriale i caratteri del
sistema educativo.
Nel contesto attuale, quindi, Una scuola di classe (orientamento e diseguaglianza nelle transizioni scolastiche)
di Marco Romito, uscito quest’anno per Guerini e associati, va salutato
come una positiva e salutare eccezione. Un libro che è quanto più
lontano si possa immaginare da un pamphlet, essendo il prodotto di una
lunga inchiesta condotta attraverso il metodo etnografico (ovvero
mediante l’osservazione diretta prolungata dall’interno dell’oggetto di
studio) in due scuole medie della periferia milanese. Un libro che, nel
merito e nel metodo, rappresenta una rarità nella ricerca scientifica
nazionale, visto che l’unico precedente di rilievo che viene alla mente è
Le vestali della classe media, di Marzio Barbagli e Marcello Dei, del 1969.
Le premesse teoriche
Romito, nei capitoli iniziali del libro (che sono anche una ottima
introduzione al dibattito della sociologia dell’educazione) chiarisce
molto nettamente la sua prospettiva: a fronte dell’approccio
funzionalista, che parte dal presupposto che gli apparati scolastici
vadano studiati come risposte finalizzate ad uno scopo dato (ovviamente
l’educazione), la sua ricerca si situa all’interno di una prospettiva
“conflittualista”: la scuola, sulla scia di Marx e Weber, è vista come
il prodotto storico di strutture sociali determinate, che esprime e
riproduce, sia a livello della propria organizzazione, sia a livello dei
saperi che trasmette che del metodo in cui ne attua la trasmissione, le
contraddizioni proprie della società di cui è il prodotto. Romito,
trattando sinteticamente diversi decenni di “sociologia critica” sulla
scuola, individua due diversi approcci all’interno del filone
“conflittualista”: l’uno, che vede la diseguaglianza come un prodotto
“esterno” ai processi educativi, ovvero come l’eredità delle
appartenenze di classe degli individui che l’istituzione riproduce
passivamente, ed un’altra, che pone l’accento sui fenomeni di carattere
discriminatorio (come il “labeling”) generati dalle stesse istituzioni
scolastiche. Ciò gli consente di motivare il suo giudizio sulla
centralità dell’opera di Pierre Bourdieu. Il sociologo francese,
nell’arco di un trentennio (da Les héritiers, scritto con Passeron nel ’64, fino a La noblesse d’état,
dell’89) ha sviluppato un metodo che consente di trattare con efficacia
critica entrambi gli aspetti del problema: la diseguaglianza,
all’interno della scuola, è sì il riflesso di differenze economiche e,
soprattutto, socioculturali, proprie dell’ambiente sociale di
provenienza, ma è anche riprodotta e rinforzata dalle pratiche proprie
della didattica e della valutazione scolastiche. Gli insegnanti, cioè,
sono essi stessi gli agenti inconsapevoli della riproduzione e del
consolidamento della diseguaglianza nel momento in cui giudicano come
mancanza di “talento” ciò che è invece il frutto dell’estraneità del
linguaggio e dei valori ereditati nell’ambiente di provenienza rispetto
al linguaggio e ai valori propri dell’istituzione scolastica.
L’habitus e la violenza simbolica
Una delle acquisizioni più importanti del lavoro condotto da
Bourdieu in campo sociologico consiste nella dimostrazione del modo in
cui gli oppressi collaborano alla propria stessa oppressione. Bourdieu
si serve dei due concetti chiave dell’habitus e della violenza simbolica,
centrali nell’indagine di Romito. Secondo Bourdieu, l’esperienza
sociale, sin dalla prima infanzia, plasma il corpo del singolo nella
postura, nella gestualità, nel linguaggio e, dal momento in cui è data
come superata la dicotomia cartesiana di corpo e mente, anche
nell’immaginario e nel simbolico. L’habitus sarà quindi il prodotto
incorporato della struttura sociale, quell’insieme di atteggiamenti e
comportamenti che definiscono la modalità del nostro rapporto al mondo
sociale e a noi stessi: è l’habitus che conduce ad un tempo colui che
vive una situazione di svantaggio ad anticipare soggettivamente l’atto
della selezione scolastica, rinunciando a certi obiettivi ambiziosi
poiché “non sono roba per noi”, e che induce l’insegnante (o per lo meno
il “tipo medio”) a valutare secondo parametri “scolastici” (come la
mancanza di talento e di “dono”) ciò che è invece il prodotto
dell’ineguaglianza delle condizioni sociali di esistenza.
E’ l’habitus, quindi, che prepara l’opera di incanalamento selettivo
degli studenti della scuola media verso percorsi che promettono
opportunità diseguali: gli alunni dei ceti popolari sono già propensi in
partenza a rinunciare ai percorsi che diano accesso alle professioni di
più alto livello, scartando in partenza il liceo e rivolgendosi invece
agli istituti professionali e ai centri di formazione professionale.
L’habitus, incorporazione dell’inferiorità (o della superiorità)
sociali, fa sì che la selezione divenga – in buona parte -
auto-selezione.
Tuttavia, la spiegazione del processo non sarebbe affatto completa,
senza l’intervento della “violenza simbolica”: essa è costituita
dall’imposizione di valori e di significati estranei che negano e
delegittimano i valori e significati di cui i soggetti stessi sono
portatori. La “violenza simbolica” di Bourdieu si distanzia da concetti
come l’”ideologia” o il “labeling” poiché essa funziona mediante la
complicità delle stesse vittime che, non avendo a disposizione un
simbolico da opporre a quello che viene loro attribuito d’autorità,
finiscono per agire in modo conforme al simbolico che viene loro
imposto. Proprio mediante la “violenza simbolica” la scuola svolge,
secondo Romito, un ruolo attivo nella produzione delle diseguaglianze,
generando l’adesione dei dominati alle gerarchie simboliche della
cultura dominante, che implicano l’introiezione di una condizione di
inferiorità e portano a ciò che comunemente si indica come “abbassamento
delle aspettative”.
Che cos’è l’orientamento scolastico
In che modo gli effetti dell’habitus e della violenza simbolica
operano concretamente nell’indagine sul campo compiuta da Romito?
Quest’ultima si focalizza su un aspetto determinato e specifico del
funzionamento dell’istituzione scolastica, l’orientamento, ovvero sul
momento in cui, all’incirca a metà della terza media, gli insegnanti
forniscono alle famiglie un consiglio orientativo che indirizza gli
allievi nel sistema della scuola secondaria superiore verso il liceo, il
tecnico, il professionale o il corso di formazione professionale.
Romito sottolinea preliminarmente come, pur essendo considerato
sempre di più, a livello istituzionale, un momento strategico dei
percorsi scolastici, ossia la forma mediante cui evitare spreco di
risorse umane e scelte sbagliate da parte delle famiglie, l’orientamento
sia rimasto una “black box”, in assenza di studi che prendessero in
esame le procedure e i criteri effettivamente adottati dagli
orientatori. La protesta di Romito potrebbe essere estesa alla modalità
in cui funziona, nell’insieme, il discorso sulle cose di scuola, in
Italia: o propaganda, o invettiva, o utopia pedagogica, o, al massimo,
teoria normativa. L’inchiesta, quando c’è, si limita a mettere in ordine
dati statistici prodotti dall’istituzione oppure generati dalla
compilazione di questionari. Il vuoto totale per ciò che riguarda
l’analisi delle concrete interazioni pratiche e discorsive degli agenti
che operano all’interno dell’apparato scolastico, il solo modo che
impedisca di non limitarsi a denunciare gli effetti della diseguaglianza
sociale nella scuola, ma consenta di approfondirne i meccanismi. Non è
infatti l’”istituzione” in astratto, ma sono pur sempre degli attori in
carne ed ossa, insegnanti e studenti, che selezionano o si
“auto-selezionano”.
Romito rileva che la necessità di un’indagine approfondita deriva
dal fatto che l’orientamento non è un processo di tipo burocratico, che
si limiti cioè a indirizzare gli studenti verso i diversi canali
scolastici in base alle valutazioni conseguite all’esame di terza media.
Gli automatismi funzionano solamente per le fasce estreme di votazione,
ovvero tutti gli allievi che conseguono un “9” o un “10” vengono
orientati verso il liceo e tutti coloro che vengono promossi con un “6”
vengono orientati verso istituti professionali o corsi di formazione
professionale. Ma le fasce intermedie di votazione sono quelle che
interessano la grande maggioranza degli allievi, per i quali i consigli
di orientamento si diversificano molto in rapporto ai voti d’esame.
Rapporti di forza
Come si può, dunque, sintetizzare il funzionamento del processo
(ovviamente, in questa sede semplificando di molto le analisi e le
considerazioni dell’autore) mediante cui l’orientamento riproduce e
rafforza le diseguaglianze? Due, leggendo il libro, mi sono sembrati gli
aspetti salienti del meccanismo. Il primo consiste nel fatto che, pur
essendo il consiglio orientativo non vincolante per la scelta delle
famiglie, che hanno piena facoltà di iscrivere i loro figli ad un
indirizzo diverso rispetto a quello consigliato dalla scuola, esso
diviene tuttavia molto influente e autorevole per le famiglie che si
trovano più in basso nella struttura sociale. Infatti, mentre le
famiglie di medio e alto livello sociale, che possiedono un elevato
capitale culturale, molto spesso contraddicono il parere degli
insegnanti, le famiglie dotate di un basso livello di capitale culturale
(molte, soprattutto in una delle due scuole studiate da Romito) seguono
il consiglio degli insegnanti, anche rivedendo al ribasso i loro
progetti iniziali: “I soggetti più distanti dalla cultura scolastica
tendono, invece, ad assumere un atteggiamento deferente e passivo nei
confronti degli insegnanti, ritagliandosi margini bassissimi di
negoziazione”.
In secondo luogo – ed è questo forse l’aspetto più significativo
dell’indagine di Romito – la modalità attraverso cui i docenti
orientatori determinano i loro giudizi, nel momento in cui si richiama
ai principi dell’equità e del merito è, in realtà, fortemente
condizionata dalle appartenenze sociali degli allievi. A parità di
rendimento scolastico, un ragazzo o una ragazza proveniente da una
famiglia straniera o da una famiglia “proletaria” vengono molto più
spesso indirizzati verso gli istituti professionali piuttosto che verso i
licei.
Romito riporta in modo estremamente preciso e dettagliato i discorsi
degli insegnanti rispetto ai criteri che guidano i loro consigli
orientativi, dimostrando come le retoriche attraverso cui essi tendono a
motivare ed a legittimare le proprie procedure di orientamento siano
molto distanti dalle pratiche effettive utilizzate nell’orientare i loro
alunni. Ad esempio, da un lato il discorso ufficiale afferma la pari
dignità tra tutti gli indirizzi scolastici, ma la convinzione intima
degli insegnanti, esplicitata nei dialoghi con il ricercatore è che
“alcune scuole sono più eguali delle altre”, ovvero che i licei sono
“buone scuole” e i professionali “cattive scuole”. Inoltre, mentre gli
insegnanti affermano di non tenere in alcun conto l’origine sociale
degli studenti nel formulare i giudizi orientativi, ma solo dei loro
meriti scolastici e delle loro “inclinazioni”, le stesse origini
sociali, “nel corso delle discussioni con i docenti, vengono
continuamente richiamate”. E, per esempio, diventa determinante, per
consigliare il liceo, stabilire se l’allievo abbia o meno una famiglia
che lo supporti.
L’indagine di Romito giunge alla conclusione che il
ridimensionamento delle aspettative da parte degli allievi di modesta
origine sociale, lungi da essere semplicemente il riflesso di un
’”habitus” che esclude gli obiettivi culturalmente più ambiziosi, è il
frutto di un’azione esplicita degli stessi insegnanti, che mirano a
convincere i loro alunni di “non essere da liceo”, sostenendo spesso i
loro giudizi con l’argomentazione che le famiglie non possono
permettersi lo sforzo economico di un lungo percorso di studi. L’azione
socialmente discriminatoria – che, nella più forte delle storie
esemplari raccontata da Romito, quella di “Anna”, giunge a configurarsi
come una vera e propria demolizione di un progetto di vita – viene
quindi giustificata come una forma di “tutela” e “protezione” delle
famiglie dotate di un basso livello di capitale economico e di capitale
culturale.
Evidentemente, nel discorso e nella pratica degli insegnanti si
riflette la doppiezza di una istituzione scolastica che afferma di
essere fondata su principi di eguaglianza e di pari opportunità mentre
in realtà riproduce attivamente la diseguaglianza sociale. E non si
tratta solamente di quell’ideologia essenzialista che, nella Milano di
Romito come nella Parigi di Bourdieu, ponendo a proprio fondamento le
nozioni del “dono” e della “vocazione” non fa altro che misconoscere una
realtà socialmente e culturalmente ineguale. La retorica scolastica
persiste, paradossalmente, anche nel momento in cui si presentano fatti
macroscopici che la smentiscono. Uno degli argomenti più utilizzati
dagli orientatori è, infatti, che i licei sono scuole “difficili”,
troppo ardue da scalare per gli studenti di origine sociale modesta,
mentre più agevole sarebbe la scelta di un percorso di tipo pratico,
tipico (ma solo in teoria, visto che la riforma Gelmini ha abbattuto
radicalmente le ore di laboratorio) di un professionale. Ma, si domanda
Romito, non sono forse proprio i professionali le scuole meno
accoglienti, quelle in cui si verificano i più alti tassi di bocciature?
(Marco Magni, Micromega, 24 agosto 2016)
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