20 giu 2015

una scuola per il nostro tempo (di p. bevilacqua)

Istruzione. Sul piano dei contenuti e delle discipline potrebbe costituire uno straordinario laboratorio di riforma scientifica, culturale e morale. E va superata anche la visione eurocentrica nella storia del pianeta

La pochezza e peri­co­lo­sità della legge sulla cosid­detta «Buona scuola» messa in evi­denza da com­men­ta­tori di ogni ten­denza (da ultimo l’ottimo inter­vento di Illet­te­rati su que­sto gior­nale del 28/5) ci dovrebbe tut­ta­via spin­gere a ten­tare di deli­neare i tratti di una scuola all’altezza del nostro tempo. Al di là della neces­sità di remu­ne­rare gli inse­gnanti ita­liani con un red­dito digni­toso – la più vera e urgente riforma – occor­re­rebbe avviare una rifles­sione di prospettiva.
La scuola è un asse fon­da­men­tale per la tra­sfor­ma­zione radi­cale del capi­ta­li­smo e costi­tui­sce un ter­reno su cui la sini­stra ha poten­zia­lità egemoniche.
È evi­dente, infatti, che su tale ter­reno le classi diri­genti euro­pee non vanno oltre un basso oriz­zonte eco­no­mi­ci­stico. Tutti gli inter­venti rifor­ma­tori che si sono suc­ce­diti in Ita­lia e in Europa su scuola e Uni­ver­sità, a par­tire dal cosid­detto «pro­cesso di Bolo­gna» (1999) sino alla “Buona scuola” dell’attuale governo — ovvia­mente con dif­fe­renti ambi­zioni — hanno un ele­mento in comune: quello di ricer­care una mag­giore effi­cienza fun­zio­nale degli isti­tuti della formazione.
Modi­fi­ca­zioni e aggiu­sta­menti che non hanno mai riguar­dato la qua­lità degli inse­gna­menti e il modo di impar­tirli, l’estensione e l’innalzamento dei pro­cessi di cono­scenza e di for­ma­zione, ma i mec­ca­ni­smi «pro­dut­tivi» delle stesse isti­tu­zioni (quan­tità di lau­reati e diplo­mati, tempo e risorse impie­gati, assun­zione di per­so­nale, eccetera).
L’obiettivo dell’intervento è rima­sto con­fi­nato nell’efficacia ed eco­no­mi­cità delle pre­sta­zioni e nella loro misu­ra­bi­lità e incen­ti­va­zione. L’introduzione dei cre­diti nei corsi uni­ver­si­tari ha costi­tuito l’innovazione più esem­plare dello spi­rito rifor­ma­tore che ha orien­tato e orienta il legi­sla­tore. Natu­ral­mente il telos nasco­sto e uni­fi­cante di tutti que­sti inter­venti è l’adeguamento della scuola e dell’Università, con­si­de­rate vec­chie, ai biso­gni incal­zanti della società. Dove la società coin­cide quasi per­fet­ta­mente con l’impresa.
Avvi­ci­nare la scuola al mondo del lavoro: è que­sta l’esigenza invo­cata. E il lavoro altro non è che il «mer­cato del lavoro». La sor­gente dell’innovazione oggi è sem­pre il mer­cato, rego­la­tore asso­luto dell’intero uni­verso sociale. Signi­fi­ca­ti­va­mente, non pochi, mal­de­stri e ignari, si spin­gono ad accu­sare la scuola quale respon­sa­bile della disoc­cu­pa­zione gio­va­nile. Ed è que­sta pres­sione, che si eser­cita sul mondo della for­ma­zione, a deter­mi­nare l’ossessione dila­gante per la valu­ta­zione ed il merito.
Quel che preme al legi­sla­tore è incre­men­tare e misu­rare la pre­sta­zione dei sog­getti che ope­rano nell’istituzione come in qua­lun­que impresa che deve com­pe­tere. Da qui discende l’intero edi­fi­cio nor­ma­tivo e buro­cra­tico, che cre­sce su se stesso e che sof­foca oggi scuola e uni­ver­sità, distratte dai loro com­piti for­ma­tivi e chia­mate con­ti­nua­mente a valu­tare e a valu­tarsi, a mimare imprese che devono pro­durre beni e ser­vizi.
Ma è que­sta la scuola di cui abbiamo biso­gno? L’innovazione nei con­te­nuti degli inse­gna­menti si può dav­vero esau­rire nell ‘aggiunta di qual­che disci­plina (Arte, Musica, Diritto, Eco­no­mia, Disci­pline moto­rie) e, come recita ancora il testo del Ddl gover­na­tivo, nel guar­dare «al futuro attra­verso lo svi­luppo delle com­pe­tenze digi­tali degli stu­denti»? La mode­stia di que­ste amene gene­ri­cità par­to­rite dalle buro­cra­zie mini­ste­riali rivela tutta l’angustia cul­tu­rale in cui è impri­gio­nata la peda­go­gia neo­li­be­ri­sta del nostro tempo. E , per la verità, non solo essa. In realtà, oggi, sul piano dei con­te­nuti e delle disci­pline la scuola potrebbe costi­tuire uno straor­di­na­rio labo­ra­to­rio di riforma scien­ti­fica, cul­tu­rale e morale. Un luogo in cui si for­mano gio­vani in grado di pen­sare in forme nuove la realtà della natura, all’altezza delle sfide gigan­te­sche che dob­biamo fronteggiare.

Ma per inse­gnare una nuova scienza nelle scuole occorre sapere quello che è acca­duto non solo alle disci­pline in cui si arti­cola, ma anche al mondo vivente di cui si occupa. Per­ché, come ebbe a osser­vare Ein­stein, «Non pos­siamo risol­vere i nostri pro­blemi con lo stesso pen­siero che li ha creati». Ebbene, oggi è cla­mo­ro­sa­mente assente non solo nel dibat­tito pub­blico, ma per­fino nella più ristretta koiné intel­let­tuale, la per­ce­zione di uno dei più dram­ma­tici muta­menti con­su­ma­tosi nel corso del XX secolo: la subor­di­na­zione dell’evoluzione ter­re­stre ai ritmi e al domi­nio dell’azione umana.
Due vicende che erano corse in paral­lelo per mil­lenni, le tra­sfor­ma­zioni auto­nome del pia­neta e la sto­ria degli uomini, si sono fuse, e l’ evo­lu­zione della terra è stata incor­po­rata nello svi­luppo eco­no­mico delle società. Una nuova impre­vi­sta respon­sa­bi­lità grava dun­que sulle società umane, che richie­de­rebbe una nuova visione dei metodi e dei com­piti della scienza, da tempo avan­zata da stu­diosi come Edgar Morin, Fri­t­jof Capra e da altri.
Un sapere in grado di supe­rare la vec­chia sepa­ra­zione delle disci­pline: la chi­mica, la fisica, la bio­lo­gia, ecc. tutti ambiti che hanno stu­diato sepa­ra­ta­mente il corpo smem­brato della natura per meglio pene­trarlo e manipolarlo.
La pos­si­bi­lità che abbiamo oggi, gra­zie ai pro­gressi dell’ecologia, di stu­diare l’intero mondo vivente come un cosmo uni­ta­rio, bio­lo­gico, chi­mico, fisico, bota­nico, ecc. per poterlo cono­scere nelle sue più intime con­nes­sioni e pro­teg­gerlo, potrebbe pro­durre nelle classi una vera rivo­lu­zione didat­tica, capace di far coo­pe­rare le sin­gole disci­pline come mai è avve­nuto sinora. «Rifor­mare» la scuola in que­sta dire­zione signi­fi­che­rebbe dav­vero ade­guarla ai biso­gni del nostro tempo, per­ché assol­ve­rebbe il com­pito di edu­care le nuove gene­ra­zioni a una nuova etica della natura, non più luogo di indi­scri­mi­nato sac­cheg­gio, ma casa comune da curare e proteggere.
C’è un altro aspetto di carat­tere disci­pli­nare e con­te­nu­ti­stico che rimane cla­mo­ro­sa­mente assente dalle indi­ca­zioni dei rifor­ma­tori che inter­ven­gono sulla scuola. Non mi rife­ri­sco sol­tanto all’assenza di idee su come valo­riz­zare gli inse­gna­menti della nostra grande tra­di­zione uma­ni­stica, base di for­ma­zione ed eman­ci­pa­zione spi­ri­tuale degli indi­vi­dui, di edu­ca­zione al pen­siero, alla bel­lezza e alla poe­sia, e non sem­pli­ce­mente com­pe­tenza pro­fes­sio­nale da uti­liz­zare nel lavoro.
Anche in que­sto caso è la sto­ria con­tem­po­ra­nea recente a sug­ge­rire la dire­zione neces­sa­ria. Il ’900 ci con­se­gna un’altra grande frat­tura. A dispetto del per­du­rante domi­nio eco­no­mico e mili­tare dell’Occidente, è evi­dente che la visione euro­cen­trica della sto­ria del mondo oggi appare disar­ti­co­lata dall’irrompere di nuove forze.
Nuovi pro­ta­go­ni­sti nazio­nali, nuove sto­rie, cul­ture, lin­gue, arti, stili di vita si affac­ciano sulla scena inter­na­zio­nale e recla­mano un loro pro­ta­go­ni­smo. Nuovi punti di vista sul pas­sato e sul futuro della nostra avven­tura sulla terra chie­dono ascolto e dia­logo e ci sfidano.
Le esor­ta­zioni mini­ste­riali a stu­diare la lin­gua inglese e a impos­ses­sarsi dei lin­guaggi digi­tali appa­iono in tutta la loro insi­pienza mini­male, di rac­co­man­da­zioni ovvie, men­tre occor­re­rebbe appron­tare stru­menti e saperi per affron­tare le grandi sfide di una for­ma­zione inter­cul­tu­rale. Non dob­biamo solo pro­teg­gere la natura, ma anche gli uomini da se stessi, pre­ci­pi­tati in una Babele vio­lenta, che rischia di finire in un gene­rale bagno di sangue.
Poi­ché la terra ha ces­sato di essere il cor­tile dell’Occidente, occorre pre­pa­rare le nuove gene­ra­zioni al lin­guag­gio cosmo­po­lita che solo può sven­tare le guerre e fon­dare nuove fra­tel­lanze inter­na­zio­nali, per abo­lire le disu­gua­glianze e ren­dere uni­ver­sali demo­cra­zia e diritti.
(Piero Bevilacqua, il manifesto, 20 giugno 2015)

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