(di Marina Boscaino, 23 maggio 2014, Il Fatto Quotidiano)
Nel 2000 Naomi Klein fece epoca con il suo “No Logo”. Venivano lì analizzate e denunciate le operazioni di colonizzazione del pensare comune, di colonizzazione della cultura; ma le pagine più terribili – e di cui meno si è parlato – riguardavano la colonizzazione della scuola: “C’ ero, quando è cominciata. Fu heartbreaking,
un colpo al cuore. È da lì che mi è venuta l’idea del libro (…) Perché
la scuola è l’unico posto dove da giovani veniamo allenati a una
mentalità non da consumatori”.
Si tratta dello spazio, forse
l’unico, in cui l’educazione pura deve e può prevalere rispetto
all’educazione aziendale, alla logica del profitto. Dove conoscere e
crescere non significa diventare un consumatore modello, ma una persona capace di indagini critiche sulla realtà. La tendenza a consentire l’introduzione della pubblicità nelle scuole
si è invece insinuata in modo subdolo e virulento in particolare negli
ultimi anni, anche per sopperire alle continue riduzioni dei fondi che
lo Stato deve destinare alle scuole per l’ampliamento dell’offerta formativa;
qualcosa che si concretizza in tante piccole decisioni, senza un
provvedimento unico, senza delibere collegiali, senza dibattito, senza
indagini sull’opinione pubblica, e dunque in modo appunto subdolo, strisciante; ma, come ci dimostrava sin da allora l’esperienza americana, efficace.
L’anno
scorso, proprio da questo blog, raccontavamo come in un liceo di Milano
la ristrutturazione dell’aula computer fosse stata finanziata da
sponsor appositamente ricercati: che affiancarono in quella
occasione il proprio logo a quello dell’istituto, caratterizzato – per
chi non se lo ricordasse - dalla stella della Repubblica. Quella che
istituisce per mandato costituzionale scuole di ogni ordine e grado.
Oggi, dopo una serie di impressionanti esempi in questa direzione,
sempre più considerati segni imprescindibile e indiscutibili dei tempi
moderni e delle straordinarie capacità imprenditoriali di presidi manager e di consigli di istituto zelanti, ci troviamo a raccontare il prosieguo della vicenda, il passo ulteriore. Il Miur
si è fatto promotore di un’iniziativa, volta a rafforzare
definitivamente l’idea che la scuola debba produrre non cittadini
consapevoli, ma consumatori acritici, sensibili ad apparenza, velocità,
possesso. Del resto la pianificazione di questo risultato è iniziata
almeno 15 anni fa e portata avanti con diligenza encomiabile.
Si chiama IoStudio Postepay.
Al Miur hanno garantito che il progetto, inaugurato quest’anno, ma che
ancora non riguarda tutte le scuole, sta andando avanti con successo. Si
tratta di una carta prepagata ricaricabile nominativa, che si può
utilizzare per acquisti fino a 2.500 euro e prelievi fino a 1.000 euro
annui. Essa consente non solo accesso ed agevolazioni destinati agli studenti, ma anche pagamenti “in tutti i negozi e siti nel mondo che accettano carte Visa” e prelievi “presso
gli sportelli automatici Postamat e gli uffici postali in Italia e
presso gli sportelli automatici Visa in tutto il mondo”.
L’iniziativa
ha destato molte perplessità (dal punto di vista giuridico,
dell’accesso di cittadini minorenni ad un simile servizio, ecc.); ma –
soprattutto – riserve di natura etica, relative alla ideologia sottesa.
Vengono immediatamente immessi nel mercato del consumo circa 3 milioni
di studenti, per lo più minorenni. Insomma: la scuola passa da vittima
dalla spending review a protagonista della spending preview. Un bacino enorme, messo gentilmente a disposizione degli esercenti.
Ancora più grave è che in un devastante periodo di crisi economica,
in cui le famiglie spesso fanno fatica ad arrivare alla fine del mese,
questa prepagata si collochi come ulteriore segnale, marchio definitivo
tra condizioni (e destini) socioeconomici differenti. Non tutte le
famiglie saranno infatti nelle condizioni di ricaricare la carta ai
propri figli (molto probabilmente non molte di quelle a cui Renzi ha
elargito gli 80 euro). Alla condizione collettiva di cittadinanza
configurata nella scuola pubblica viene associata in maniera indelebile la capacità individuale di consumo, con le sue tragiche ed inique variabili.
La differenziazione economica
fa parte dell’esistente, lo sappiamo. La discriminazione anche, a
quanto pare. Ma nella scuola pubblica, la scuola della Costituzione,
questi elementi dovrebbero tendere a scomparire (ricordate la retorica
dei grembiulini di gelminiana memoria?), non diventare addirittura
componenti identitarie. La scuola dovrebbe “rimuovere gli ostacoli”, non
crearne ulteriori per sottolineare, tra le sue stesse mura, il divario
tra i nati bene e i figli di un dio minore.
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