10 mag 2013

invalsi, facciamogli del male (di g. caliceti)

Anche quest'anno ci sono polemiche a proposito dei famigerati test Invalsi nella scuola. Chi dice che sono indispensabili, chi dice che fanno male ai bambini e alla scuola. Io, per esempio, la penso come questi ultimi.
Vorrei porre però la questione, per una volta, in modo diverso dal solito, ponendo una semplice domanda, sia ai favorevoli che a chi non lo è. La domanda è questa: che rapporto c'è tra quello che chiedono agli studenti i test Invalsi e quello che noi insegniamo loro? O, in modo ancora più preciso: che rapporto c'è tra l'idea di scuola e di formazione che c'è dietro ai test Invalsi e l'idea di scuola che è descritta nella nostra Costituzione? Lo chiedo, perché ho la sensazione che siano idee differenti. E che i programmi e i dettati scolastici della nostra scuola di oggi - fortunatamente, per quanto mi riguarda, - non coincidono assolutamente con quelli che poi si chiede nei test agli studenti, creando una situazione di vera e propria schizofrenia e confusione non solo tra gli studenti, ma anche tra i docenti. Un esempio, ai docenti viene richiesto dalla scuola della Costituzione la promozione delle «domande aperte» agli studenti, ma l'Invalsi ha test chiusi, a crocetta. Non è richiesto allo studente di compiere analisi e sintesi rispetto a ciò che apprende, né di avere un'opinione o un minimo senso critico. I test sono pensati piuttosto, nella maggioranza dei quesiti, come domande a risposta blindata, forse in grado di accertare livelli minimi di capacità di calcolo matematico o di competenze grammaticali o sintattiche, ma senza andare oltre. Anche questa faccenda che non entrano nella valutazione di altre materie, che senso ha? Molto semplicemente: perché insegnamo ai nostri studenti tanti contenuti, se poi viene richiesto loro solo una abilità di comprensione di un solo genere di testo? E questo solo per quanto riguarda lo studio della lingua italiana, naturalmente. Alle superiori, per esempio, ore e ore sono passate a studiare la storia della letteratura italiana, ma le prove Invalsi non richiedono nulla su questo.
Dunque? Che senso ha? Inoltre, ammettiamolo, la «cultura del test» abbia nel tempo crea studenti meno capaci di esporre e di argomentare in modo coerente e corretto, sia oralmente sia per iscritto: è questo che vogliamo? Non erano forse i vecchi esami in seconda e quinta elementare?
Ancora: il nostro unico strumento di valutazione di una persona che sta crescendo è un test, non si perdono forse tutti quei segnali verbali e non verbali che lo studente ci mette a disposizione nel percorso didattico? Siamo sicuri che misurazione e valutazione sono sinonimi? Ma poi, quali sono gli obiettivi dei test? Come e quando avviene la loro restituzione a docenti, studenti, genitori degli studenti? Perché questa restituzione non è trasparente? Quali sono i livelli minimi di qualità del sistema di istruzione da garantire?
Quale modello di scuola si intende realizzare? Com'é possibile stabilire un modo chiaro per verificare se gli obiettivi siano stati raggiunti o meno? Ancora: i responsabili dell'Invalsi sono a conoscenza che in Finlandia e negli Stati Uniti, con i test, si è rilevato un calo nei risultati di apprendimento e il nascere di una sorta di concorrenza fra le scuole, in base al presunto merito? E le didattiche finalizzate ai test, oltre a compromettere o meno la libertà di insegnamento, siamo sicuri che faccia bene agli studenti?

Giuseppe Caliceti, il manifesto, 10 maggio 2013

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