Immersi nel flusso delle mitologie correnti, ci capita spesso di perdere di vista le ragioni profonde del declino della scuola. Molte denunce e grida di allarme non sembrano mirare al centro del bersaglio. Giustamente siamo pronti a deprecare gli effetti della cosiddetta "riforma" Gelmini, ma non siamo abituati a mettere in discussione i cosiddetti "vantaggi" dell'autonomia scolastica. Questo lucido articolo di Fabio Bentivoglio ci aiuta a rovesciare un'opinione diffusa e ci propone una diversa prospettiva di intervento (a.s.).
Sulla scuola: parliamoci chiaro (di Fabio Bentivoglio, Megachip.info, 31 gennaio 2013)
Sono trascorsi sedici anni da quel fatidico 15 marzo 1997, giorno e anno
della legge n° 59 sul decentramento amministrativo, nota come Legge
Bassanini, che nel suo articolo 21 prevedeva la cosiddetta “autonomia
delle istituzioni scolastiche”.
Sedici anni di interventi
legislativi sulla scuola miranti all’aziendalizzazione di tutto il
sistema formativo, compresa l’Università e gli Istituti di ricerca.
Sedici anni di addestramento dei docenti a esprimersi con linguaggi
aziendali, interiorizzati al punto da apparire quasi naturali. Sedici
anni di svuotamento dei contenuti culturali e disciplinari per orientare
l’intero sistema formativo verso “competenze” rilevabili con
misurazioni valutative in obbedienza a quanto imposto da organismi
europei di natura economica.
Quando si parla di scuola e
formazione nei luoghi deputati a decidere le sorti dell’intero sistema,
quindi in Parlamento, nella Commissione cultura della Camera ecc. … ci
si esprime in questi termini: «La valorizzazione del capitale umano deve
essere un aspetto centrale: sarà necessario mirare all’accrescimento
dei livelli di istruzione della forza lavoro, che sono ancora oggi
nettamente inferiori alla media europea, anche tra i più giovani. Vi
contribuiranno interventi mirati sulle scuole e sulle aree in ritardo,
identificando i fabbisogni, anche mediante i test elaborati
dall’INVALSI, e la revisione del sistema di selezione, allocazione e
valorizzazione degli insegnanti» (Mario Monti, Senato, 17 novembre
2011).
Oppure, con la profondità di pensiero di Valentina Aprea,
il cui nome è stato abbinato alla Commissione cultura (!) e a numerose
proposte di legge: «Dopo un primo bilancio della strategia di Lisbona,
l’Unione Europea guarda già ai prossimi dieci anni. In particolare, tra
le priorità di Europa 2020, troviamo quella di una crescita intelligente
basata cioè su un’economia della conoscenza e dell’innovazione… La
chiave di volta per camminare lungo questa direttrice… è l’integrazione
tra il sistema educativo di istruzione e formazione e il mercato del
lavoro. Un’integrazione che si realizza gradualmente basandosi proprio
sul concetto di “ competenze personali”… è dunque una necessità
improrogabile la rotta da tenere: attenzione privilegiata al mondo del
lavoro e apprendimento per competenze personali.» (Valentina Aprea, 5 mosse per mandare in soffitta la vecchia scuola).
In
tutta evidenza per realizzare tali finalità ci vogliono scuole
“autonome”, dove per “autonome” si intende scuole che pur mantenendo una
forma pubblica siano poste nella condizione giuridica di agire come
istituti privati.
La forma pubblica è ormai talmente residuale
che, a livello parlamentare, ormai si discute apertamente di trasformare
le scuole in fondazioni, cioè in istituzioni mediante le quali i
privati perseguono scopi collettivi.
Poco importa se al momento
l’ipotesi non è ancora operativa, è solo questione di tempo. Francamente
non capisco lo stupore di chi si stupisce di questa prospettiva, perché
è un destino inscritto nel DNA dell’autonomia scolastica.
Allo
scopo di valutare se quanto sta accadendo nelle scuole sotto i nostri
occhi è una degenerazione dello spirito dell’autonomia scolastica, o,
all’opposto, la sua coerente attuazione, è utile rinfrescare la memoria
per ricordare alcuni articoli di quella legge del lontano 1997.
Quella
legge ha reso autonome le istituzioni scolastiche attraverso la
concessione della personalità giuridica, proprio per farle diventare
permeabili agli interessi extraculturali: il sesto comma dell’art. 21
della legge Bassanini, prevede la possibilità di accettare donazioni,
eredità e legati e dunque aprirsi ai condizionamenti dei donatori.
L’ottavo
comma dell’art.7 del regolamento attuativo (approvato dal consiglio dei
ministri del 25 febbraio 1999) consente di stipulare convenzioni con
associazioni o agenzie operanti sul territorio, per la realizzazione di
specifici obiettivi: ciò apre la strada a piegare obiettivi ed esigenze
della scuola anche a finalità non di natura educativa.
Il decimo
comma dello stesso regolamento, rende possibile acquisire servizi e beni
mediante la partecipazione a consorzi anche privati (dunque darsi un
interesse economico privato collegato con altri interessi dello stesso
genere). Secondo l’art. 3 del regolamento attuativo l’autonomia di ogni
istituzione scolastica si concretizza nel suo specifico Piano
dell’Offerta Formativa (il POF), un documento elaborato dal Collegio dei
Docenti (sulla base delle scelte di gestione e di amministrazione
definite dal Consiglio di Istituto, tenendo conto delle proposte delle
associazioni informali dei genitori e degli studenti) cui si assegna il
compito di definire addirittura l’identità culturale dell’istituzione
scolastica.
Concepire l’autonomia come delega alle istituzioni
scolastiche di darsi ciascuna singolarmente un proprio piano
dell’offerta formativa, operando poi con strategie di marketing per
farsi pubblicità e attirare clienti, oltre ad essere impossibile in
pratica è anche assurdo in un’ottica culturale. Ma è un assurdo che
cessa di essere tale se giudicato in ragione del fine che il legislatore
si è posto. Il fine della legge sull’autonomia scolastica è stato ed è
lo scardinamento del carattere pubblico e nazionale del sistema
dell’istruzione (in cui i diversi tipi di scuola e i singoli istituti
scolastici erano articolazioni settoriali e locali, espressione di un
progetto educativo nazionale), da sostituirsi con un sistema solo
formalmente pubblico, organizzato con logica privatistica in cui ogni
singolo istituto, posto nelle condizioni giuridiche di procacciarsi
finanziamenti e risorse, progetta se stesso in competizione con altre
scuole.
A che scopo?
È importante rileggere cosa
scrivevano in quegli anni i protagonisti della riforma, proprio per
evitare di scandalizzarsi a fronte di quanto si scrive e si fa oggi: «Il
Piano dell’offerta formativa (POF) definisce le strategie generali
adottate dalla scuola per migliorare la qualità dei propri processi
formativi… e ciò prevede la valorizzazione delle risorse di cui ciascuno
studente è in possesso per sviluppare le conoscenze, le competenze e le
capacità in funzione di un proficuo inserimento nella società e nel
lavoro… sviluppando la formazione all’autoimprenditorialità e ponendo
attenzione alle componenti cognitive della formazione fondate sul saper
fare… […] Il passaggio alla scuola dell’autonomia… si riassume come
passaggio dalla riorganizzazione della programmazione
didattico-educativa… alla progettazione di curriculi formativi
generatori di competenze, in coerenza con le esigenze del territorio (il
POF), che fa capo al sistema della formazione integrata. Il tutto
mediante una didattica per progetti.» (Quaderni di Iter n. 3, Autonomia
2000. Dalla sperimentazione all’ordinamento, pp. 82-99). È il passaggio
dalla scuola dei programmi (quindi delle “materie” vincolate allo
svolgimento di programmi nazionali in funzione della formazione
dell’uomo e del cittadino) alla scuola dei progetti per sviluppare
competenze e «spirito di imprenditorialità» del giovane studente in
funzione delle esigenze del mercato del lavoro. Questo è stato
annunciato, detto e fatto sedici anni fa.
Ad evitare equivoci:
nessuno rimpiange la cosiddetta scuola tradizionale - anteriore alla
riforma - che era giunta ormai al capolinea.
In quella scuola i
contenuti erano trasmessi in modo meccanico, arido, con formalismi e
modalità didattiche insopportabili. La scuola, però, doveva essere
riformata con criteri culturali, tenendo conto delle diverse fasi
evolutive dell’età scolare, allo scopo di rivitalizzare la finalità vera
della scuola, cioè promuovere lo spirito critico e l’autonomia di
giudizio dei giovani.
È stata invece imboccata la strada
dell’aziendalizzazione forzata i cui moduli organizzativi sono
necessariamente distruttivi se applicati a un’istituzione la cui logica
di funzionamento risponde ad altri scopi e finalità. Se organizzassimo
un’azienda con principi tratti dall’universo scuola sicuramente
fallirebbe. E viceversa. Quest’ovvietà non è più oggetto di discussione:
il dogma del totalitarismo aziendalistico ha ormai colonizzato il
pensiero e le coscienze.
A tal proposito merita di essere
segnalato il saggio di Nicola Capone Libertà di ricerca e organizzazione
della cultura (La scuola di Pitagora, Napoli, 2013) che dimostra con
rigore documentale come il mondo della cultura e della scienza abbia
ormai accettato come una sorta di destino ineluttabile il fatto che
tutto il sistema della formazione debba essere strumento funzionale agli
interessi del mercato: si chiede a tutti gli insegnanti di formare un
sapere “utile” trasformabile in valore di mercato!
E dimostra
come questo progetto di trasformare ricerca e pensiero in ancelle del
mercato si realizzi attraverso due dispositivi combinati: il taglio
programmato della spesa pubblica per l’istruzione e una legislazione
tesa all’aziendalizzazione degli istituti di ricerca e di alta
formazione, oltreché della scuola.
Riduzione della spesa pubblica
e aziendalizzazione sono dunque due facce della stessa medaglia. La
parola magica di questo moderno processo di asservimento del sapere
iniziato a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso è, appunto,
l’autonomia. Dopo aver analizzato il nobile significato con cui l’hanno
intesa i padri costituenti (l’autonomia, quella vera, è condizione di
libertà in quanto garantisce le istituzioni nella loro opera di
promozione culturale e di ricerca al riparo da condizionamenti e/o
pressioni di interessi extra culturali, politici o economici che siano)
l’autore dimostra come, oggi, tale significato sia stato letteralmente
capovolto, facendolo diventare sinonimo di “aziendalizzazione”: «Questa
speciale interpretazione dell’autonomia, insieme al taglio progressivo
dei fondi destinati alla ricerca e alla formazione, si sta risolvendo in
un sostanziale obbligo alla privatizzazione dell’intero sistema
formativo nazionale, con il risultato di trasformare la tanto declamata
autonomia finanziaria degli atenei in una trappola mortale attraverso la
quale assoggettare l’autonomia del sapere alla volontà delle burocrazie
ministeriali sempre più obbedienti alla logica spietata del mercato e
della concorrenza.» L’intero sistema di formazione culturale, dunque, è
caduto nella “trappola mortale” dell’autonomia.
A questo punto
domando: c’è qualcuno in grado di citare un solo provvedimento di un
certo rilievo, concernente la scuola, che nel corso di questi sedici
anni non sia stato in linea con le finalità formulate in quel lontano
1997?
C’è qualcuno in grado di spiegare razionalmente per quale
recondita ragione un qualsiasi governo dovrebbe “investire di più” nella
ex scuola pubblica statale, mantenendo intatto un quadro
giuridico-normativo concepito per lo scopo opposto, cioè
l’autofinanziamento dei singoli istituti con la possibilità di scaricare
i costi sulle famiglie?
C’è qualcuno in grado di spiegare per
quale recondita ragione i governi dovrebbero valorizzare la professione
docente (in termini di retribuzione, livello culturale e quindi di
dignità professionale) dal momento in cui, a muso duro, ai docenti è
stato detto per ben sedici anni che il loro ruolo è di sviluppare
competenze che saranno verificate da modelli standard di rilevazione
funzionali al mercato del lavoro?
C’è qualcuno in grado di
spiegare razionalmente la compatibilità tra uno solo degli obiettivi
delle attuali proteste dei docenti e degli studenti con il quadro
normativo e le finalità previste dalla legge sull’autonomia scolastica?
Il
punto, allora, è proprio questo e su questo punto è giunto il momento
di parlarci chiaro: tutte le sacrosante rivendicazioni provenienti dal
mondo della scuola nelle sue varie componenti, o le inscriviamo in
un’agenda che al primo posto esige l’abolizione della cosiddetta
autonomia scolastica allo scopo di mettere una pietra tombale sulla
stagione della scuola dell’autonomia, oppure, accettandone la logica e
operando al suo interno, qualsiasi rivendicazione che abbia un minimo di
senso culturale, sociale, formativo e democratico è destinato a
rimanere parola vana.
Non si può continuare ad agire con la
logica della “vertenza”, tipica della cultura sindacale del '900, quando
la battaglia non riguarda provvedimenti circoscritti e contingenti
all’interno di un quadro generale comunque condiviso dalle parti.
La
battaglia, oggi, è impari: da un lato c’è un progetto di scuola messo
in atto nel corso di sedici anni, che ha modificato radicalmente la
natura della scuola, i suoi scopi, la sua organizzazione e che ha
coerentemente declassato la professione docente a livello di esecutori
addestrati (l’umiliazione delle prove preselettive del recente concorso
cui sono stati sottoposti i nostri colleghi dovrebbero suscitare un moto
di sdegno in chi ha ancora conservato un barlume di dignità
professionale), dall’altro si registrano reazioni episodiche,
frammentate, o comunque proteste che non mettono mai seriamente in
discussione la logica di quel progetto. E che perciò sono destinate a
soccombere.
Una battaglia per una scuola pubblica nell’accezione
costituzionale del termine non può essere condotta con questa
paralizzante contraddizione che ha caratterizzato le proteste sino a
oggi. Mi spiego. Non c’è dubbio che l’esito di una battaglia sociale su
obiettivi sociali la si vince o la si perde in base ai rapporti di
forza. Detto questo, però, per essere combattuta con qualche speranza di
esito positivo, è necessario individuare il vero fronte su cui
scontrarsi.
Mi spiego con un esempio. In Val di Susa la
popolazione ha intrapreso una battaglia contro il progetto della TAV:
con ogni probabilità perderà (perderemo) questa battaglia per rapporti
di forza asimmetrici. Lo scontro, però, avviene nella “trincea” giusta,
nei cantieri, creando difficoltà e problemi a quanti devono devastare il
territorio con ruspe e trivelle, e a livello politico, non votando più
per quanti sostengono quel progetto. Se invece, pur mantenendo le
medesime parole d’ordine contro la devastazione del proprio territorio e
la difesa dell’ambiente, il popolo NO-TAV protestasse proclamando lo
sciopero della briscola in tutti i bar della valle, agevolando il
passaggio di ruspe e trivelle e votando per quei politici che sostengono
quel progetto, la battaglia sarebbe persa in partenza. È esattamente
quello che da anni sta accadendo nella scuola.
Le ruspe e le
trivelle che devastano il territorio della scuola sono in opera da
sedici anni, e, come abbiamo visto, si chiamano POF, capitale umano,
valutazione dei prodotti, competenze, “utenti”, INVALSI, progetti,
ottuso egoismo competitivo, personalizzazione dell'offerta formativa,
abolizione delle ore di compresenza, scomparsa dei programmi nazionali
della scuola primaria ecc... e queste sono le ruspe e le trivelle contro
cui dovrebbe essere indirizzata una lotta di lungo respiro.
L’opposizione
alla scuola-azienda rimane illusoria se non si traduce in
un’individuazione teorica dei punti nevralgici che trasmettono nella
scuola gli impulsi aziendalistici così da attivare una mobilitazione
pratica per reciderli. Ad oggi, esiste in Italia una sola scuola che si
sia rifiutata, in nome della dignità culturale, di stendere il POF? Si
obietta: ma è obbligatorio! E allora si scriva nome, indirizzo e numero
di telefono della scuola e l’elenco delle discipline che vi s’insegnano!
Punto.
Riflettiamo sull’ultima grande fiammata di proteste tra
ottobre e novembre che, in occasione del minacciato aumento dell’orario
di lavoro di ben sei ore, ha dato vita a cortei, comitati, assemblee
autoconvocate in tutte le città d’Italia, in nome della difesa della
dignità della professione docente e della scuola pubblica statale.
Questa fiammata, non sorretta da un progetto strategico globale
alternativo a quello dell’autonomia, si è ovviamente ben presto
esaurita.
Anzi, al rientro dalle vacanze di Natale, quelle stesse
scuole che avevano stilato accesi documenti di protesta, bloccato tutte
le cosiddette attività aggiuntive, dimissionato i coordinatori di
classe ecc... (che è l’equivalente dello sciopero della briscola in Val
di Susa) hanno poi provveduto a coprire di manifesti i muri della città
(cito per esperienza e visione diretta) per guadagnare nuovi iscritti,
producendo anche patetici spot pubblicitari da inserire nel sito della
scuola. E sono già iniziate le grandi manovre per aggiornare i POF. Le
ruspe e le trivelle che hanno distrutto la scuola sono tenute in
efficienza dalle scuole stesse. Traduzione: il modello di scuola contro
il quale si dice di combattere è stato in realtà interiorizzato. La vera
trincea, dove si dovrebbe combattere la vera battaglia, è deserta.
Stupisce
che a distanza di così tanti anni sia ancora diffuso tra i docenti
l’atteggiamento di interpretare l’autonomia con i colori delle proprie
intenzioni soggettive, quindi vivendola come una sorta di maggiore
libertà nel prendere iniziative o progettare eventi non proponibili
nella “scuola tradizionale”. Questa convinzione di potersi ritagliare
uno spazio proprio, libero, astraendo dal contesto oggettivo entro cui
l’azione pratica si svolge, è davvero un’illusione in cui si vuole
credere.
Ma il cerchio ormai si sta chiudendo: la selezione dei
docenti attraverso prove standardizzate che si ispirano a un concetto di
meritocrazia degno di una comunità di scimpanzé (vince chi è più
addestrato e chi sa addestrare meglio), i residui finanziamenti pubblici
destinati alle scuole “migliori” cioè quelle in cui si addestra meglio a
“imparare a imparare” (che cosa?), finiranno per far evaporare anche
queste ultime illusioni. Sempre che non si decida una buona volta, tutti
insieme, di far chiudere questa storia penosa dell’autonomia,
impegnandosi nel contempo per l’elaborazione di un progetto culturale di
scuola che nel nuovo contesto storico consenta alle giovani generazioni
di partecipare con responsabilità, senso critico e memoria storica alla
vita collettiva. Questo deve fare la scuola.
NOTA
L’aziendalizzazione
dei sistemi formativi è un fenomeno storico che non è possibile
trattare nello spazio di un articolo. Esiste però, ormai, una vasta
letteratura che ha affrontato l’argomento e che ha analizzato il
significato storico-culturale del processo attualmente in corso. Qui ci
limitiamo a segnalare soltanto alcuni materiali che crediamo possano
essere utili per meglio contestualizzare la vicenda dell’autonomia
scolastica.
Segnaliamo in particolare questa pagina di un sito
internet (curato da Roberto Renzetti) che rappresenta una miniera quasi
inesauribile di analisi e ricostruzioni storiche del processo di
aziendalizzazione della scuola: http://www.fisicamente.net/index-94.htm
Utile può risultare inoltre la lettura del dossier del laboratorio politico culturale Alternativa: “ Alternativa e scuola. Il coraggio di andare controcorrente”,
in particolare alle pagine 18/32 di questo dossier, segnaliamo per lo
spessore storico-culturale dell’analisi l’articolo di Massimo
Bontempelli “Storia di uno sfascio epocale”.
In effetti, allo
stato attuale delle cose, non esiste alcuna forza politica che abbia nel
proprio programma l’abolizione dell’autonomia scolastica! (E questo
dovrebbe farci riflettere non poco...). A quel che ci risulta, solo
Alternativa ha avanzato una simile proposta di vera rottura con il quadro presente.
(di Fabio Bentivoglio, Megachip.info, 31 gennaio 2013)
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