Il ministro Profumo è bravo a fare gesti di solidarietà.
Peccato che, meschinamente, non li faccia di persona, ma li faccia fare
ad altri. Parlo del sofisma col quale, nei giorni scorsi, il
ministro ha annunciato la sua proposta di aumentare ai professori, dal
prossimo anno scolastico, l’orario settimanale. Dalle 18 ore attuali,
alle 24 ore di docenza in classe. Come per altro avviene già per i
docenti della scuola primaria. Per la precisione, 22 ore frontali sulla
classe e 2 ore di programmazione settimanale di team.
Di fronte a questa possibilità, nei giorni scorsi, si è assistito a
un effluvio di lettere ai giornali di professoresse. Tra le più belle,
appassionate e argomentate, segnalo la lettera al ministro Profumo della
prof Mariangela Calateo Vaglio, nel suo blog sull’Espresso intitolato “Non volevo fare la prof”. Un
governo che d’imperio minaccia di stracciare un contratto di lavoro per
imporne un altro, senza contrattazione, compie un atto gravissimo. Ogni commento è superfluo: siamo alle barbarie.
D’altra parte, è interessante analizzare questa reazione docente.
Per lo più scomposta, occorre dirlo. Spesso la sacrosanta alzata di
scudi delle prof assomigliava a chi improvvisamente si svegliasse da
anni di letargo. Non voler passare da 18 a 24 ore settimanali, se non si
spiega bene, rischia di essere difficile da comprendere da un’opinione pubblica addestrata per anni da media e politici all’esercizio delle denigrazione della scuola pubblica
e dei suoi docenti, senza che la maggioranza di questi ultimi, fino ad
ora, abbia sentito l’esigenza di scrivere lettere ai giornali e
protestare efficacemente.
Soprattutto, mi pare che questa protesta metta in luce
le ataviche debolezze del corpo docente italiano, di gran lunga più
inerme di quello dei taxisti o dei camionisti, degli avvocati o degli
operai. Quali? La divisione. L’individualismo. L’incapacità di far gruppo. La pochezza politica. La paura.
E pur prendendomi ugualmente del maschilista, non credo che questo
accada perché la maggior parte è femminile. Se si confrontano i livelli
di indignazione con i numeri della partecipazione dei prof e dei docenti
in genere, per esempio al recente sciopero della scuola della Cgil,
personalmente abbastanza deludenti rispetto al disastro che si sta
abbattendo sull’intera scuola pubblica, la latitanza politica – in senso partecipativo, non di appartenenza a un sindacato o a un partito – è lampante.
Le responsabilità di quanto sta accadendo è legato anche a quanto i docenti hanno lasciato fare:
dobbiamo ammetterlo, anche come docenti. Alla diffidenza verso gli
scioperi che ha la stragrande maggioranza. All’estrema diligenza con la
quale avviene ogni loro forma di protesta e di lotta. Occorre ricordare
loro – ricordarci – che la scuola che si trovano a lavorare ora, non è
sempre stata così, ma è il frutto di lotte di anni e anni di tanti, –
docenti, genitori, studenti, sindacati, politici, – hanno fatto prima di
loro senza guardare al loro solo particolare. E in questo periodo, se i diritti non vengono salvaguardati, se non avviene una loro costante e accurata manutenzione, semplicemente, ormai lo dovremmo aver capito tutti, vengono tolti.
Gli ultimi due governi che si sono succeduti lo hanno
mostrato chiaramente: non intendono dialogare con i docenti né con gli
studenti, ma fare quello che vogliono passando sulle teste di
tutto e di tutti. Se si teme di perdere cento euro perché si aderisce a
uno sciopero, se ne subiscano poi le conseguenze senza protestare
troppo. Non è tempo di belle lettere ai giornali, ma di fatti, di prese
di posizioni forti, compatte, che da decenni mancano nella scuola
italiana. Occorre sporcarsi le mani non solo d’inchiostro, ma organizzando una seria protesta. Magari perdendoci anche più di sei ore settimanali. Gratis. Altrimenti qualcun altro ve ne farà fare gratis anche molte più di sei.
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