28 nov 2011

nazionalità e segregazione scolastica (di norberto bottani)

(di Norberto Bottani, da www.adiscuola.it , 27 nov 2011)
L’intervento del Presidente Napolitano a sostegno della nazionalità italiana ai bambini stranieri che nascono in Italia è assolutamente giusto sul piano dei principi. Compete al Presidente e alla politica decidere se è ora di instaurare anche in Italia lo “jus soli”.
Questo è un cambiamento di portata storica, che a me, che vivo in Francia, ha ricordato, fatte le debite differenze, la richiesta del Presidente François Mitterrand al Ministro della giustizia Robert Badinter di proporre al Parlamento l’abrogazione della pena di morte.
Di lì a poco, il 9 ottobre 1981, con 369 voti favorevoli e 113 contrari venne promulgata la legge che aboliva la pena di morte dal codice penale francese. L’invito di Napolitano ha un rilievo di civiltà altrettanto elevato.
La segregazione scolastica
I bambini con passaporto straniero nati in Italia, scolarizzati in Italia, dalla scuola dell’infanzia in su, non devono più essere considerati alunni stranieri. Quando a Ginevra avevo sotto la mia direzione le statistiche scolastiche ho assunto la responsabilità di non enumerare più tra gli stranieri questo tipo di studenti e di considerarli assolutamente pari agli Svizzeri. E ciò nonostante le statistiche elvetiche siano ossessionate dalla questione della nazionalità. Tutte sono condite da colonne che distinguono tra stranieri e non stranieri. La Svizzera è un piccolo paese che si difende, nel bene e nel male.
Da un punto di vista scolastico una decisione del genere mi era parsa logica. Scolasticamente questi studenti non si differenziano dagli autoctoni, hanno fatto lo stesso percorso educativo, parlano a scuola la stessa lingua. Non ci sono ragioni scolastiche per distinguerli.
Ciò non toglie che le differenze ci siano e si riproducano. Chiamarsi Aisha oppure Mahomet ed essere figli di un operaio o di una colf resta un handicap che grava sulla carriera scolastica, anche se si è nati nel paese in cui si vive e lì si va a scuola, anche se si parla la lingua o magari il dialetto del luogo.
Nella scuola ci si può e ci si deve chiedere se conta di più il passaporto o l’origine socio-culturale che spesso è un marchio che ci si porta addosso con il nome. Centinaia di indagini sulla segregazione scolastica hanno dimostrato che non è tanto il passaporto che conta nella riuscita scolastica quanto l’origine sociale. Ci sono dei Mahomet, tanto per fare un esempio, che compiono studi brillanti , conseguono svariate lauree, diventano dottori. Quindi non è nemmeno il nome che lascia un marchio indelebile e impone un destino. E’ qualcosa d’altro.
I codici scolastici
Può succedere ogni tanto che il bravo Mahomet sia il figlio di un povero diavolo o di una donna disperata. Ci sono eccezioni, celebrate come casi esemplari, portate sugli altari, che inducono le autorità scolastiche e gli insegnanti a dire che la scuola premia i meritevoli, che il sistema scolastico è giusto. Sono i talenti puri, gli studenti dotati per natura, che nascono con un patrimonio genetico favorevole. Ma si tratta di eccezioni. Purtroppo se si guardano le statistiche che tengono conto di tutti e non solo di coloro che sono eccezionalmente dotati la musica è ben altra.
Nel Paese che meglio conosco, la Svizzera, che è stato un paese di grande immigrazione per gli Italiani, ci sono studenti della seconda o terza generazione, con nomi italiani, nati in Svizzera, cresciuti in Svizzera, che magari non parlano nemmeno più l’italiano (come i due maschi della mia segretaria ginevrina Tiziana di origine abruzzese, nata anche lei a Ginevra), che si ritrovano però in maggioranza negli indirizzi scolastici scadenti, spesso infilati nelle scuole speciali, da dove non escono più, orientati in prevalenza verso i mestieri manuali. Ne conosco a centinaia. Talora questi studenti hanno un passaporto elvetico, non perché siano nati in Svizzera dove non esiste lo “jus soli”, ma perché i genitori hanno chiesto la naturalizzazione, dopo dieci o vent’anni di vita in Svizzera. Si diventa Svizzeri, si paga anche per ottenere la cittadinanza elvetica, dopo una
trafila inverosimile di procedure e prove. I genitori sono rimasti lavoratori manuali e i figli pure. L’ascensore sociale scolastico in questi casi non ha funzionato.
Gli insegnanti non hanno tempo di occuparsi di questi studenti caotici, disattenti, che faticano a leggere. Allora li abbandonano al loro destino. Il passaporto qui non c’entra. I figli della mia segretaria, pescarese d’origine, hanno fatto l’università, ma quelli di Tina la napoletana, che ha passato una vita tra Losanna e Ginevra, marito operaio tipografo, sono sul lastrico. Mahomet, nato anche lui in Svizzera, da genitori turchi, entrambi medici, venuti da Istanbul a Ginevra, dopo la maturità è diventato una matricola in filosofia ed ora è in Inghilterra per un Erasmus. In casa si parla turco, si cucina turco, ma questi genitori conoscono a menadito i codici del successo scolastico. Entrambi hanno fatto il liceo in Turchia, hanno svolto studi universitari, fatta ricerca scientifica negli USA.
Il passaporto non conta. La loro cultura è quella riconosciuta dalla scuola: i codici dei comportamenti sono quelli che si devono conoscere per riuscire a scuola.
Lo “jus soli”: nella scuola funziona e non funziona
Non bastano le buone intenzioni per correggere la selezione sociale entro l’istruzione. La scuola ha i suoi codici, le sue regole e se ne fa un baffo dei passaporti.
Uno sguardo lo si dà sempre, però, al passaporto. Nei registri scolastici la nazionalità è scritta. Questa variabile ha un certo effetto soprattutto se combinata con altre variabili. Da sola non funziona.
Il caso più eloquente è offerto dagli Stati Uniti, dove, come noto, esiste lo jus soli: tutti quelli che nascono sul territorio americano sono naturalmente americani, qualunque sia la nazionalità dei genitori e la durata o il motivo del soggiorno negli Stati Uniti. Questo è il punto di partenza del “melting pot” americano. Tutti i nati sullo stesso piano, lo stesso passaporto in partenza. Orbene, questo “jolly” funziona solo in parte, ma un certo effetto l’ha, nel senso che gli ostacoli per trovare un lavoro per esempio o per essere accolti in un ospedale o per usufruire di un servizio statale, non ci sono più, indipendentemente dal nome che si porta o dalla lingua che si parla. Si è per legge americani, punto e basta. Si tratta già di un bel vantaggio. La scolarizzazione è però un altro paio di maniche. L’origine socio-culturale conta eccome, è difficile sottrarsi al proprio destino segnato dalla cultura d’origine. Le discriminazioni sociali di fronte all’istruzione sono un dato di fatto, comprovato. Si pensi al destino degli afroamericani, al gap scolastico che continua a separali dai coetanei bianchi, oppure alla situazione degli studenti delle minoranze etniche. Non basta essere cittadini americani per cavarsela.
Conclusione
Il presidente Napolitano ha compiuto un gesto simbolico di grande civiltà che ha scatenato un putiferio. Forse ha ritenuto che era giunto il momento di compiere questo gesto o che aveva dalla sua una maggioranza di cittadini disposti a seguirlo o che era suo dovere compiere un intervento di questo tipo. Non spetta a me giudicare la pertinenza del momento.
Scolasticamente però è giusto mettere sul tavolo il problema e suonare la sveglia al corpo insegnante.
La seconda generazione di stranieri, ossia quella di coloro che sono nati e cresciuti in Italia, dal punto di vista scolastico non vanno discriminati rispetto ai compagni italiani, indipendentemente dalla cultura, dalla religione, dal cibo che mangiano, dalle lingue che parlano al di fuori delle aule scolastiche. Lo saranno in ogni modo perché nei comportamenti degli adulti entrano in gioco variabili inconsce fortissime di cui sono vittime anche gli insegnanti. Ma almeno è giusto dare a queste persone che contribuiscono allo sviluppo del paese pari opportunità di crescita, ridurre gli ostacoli che impediscono la valorizzazione del capitale umano, far sì che con un passaporto italiano non siano discriminati nei concorsi pubblici.
Un’operazione di questo tipo darebbe la stura ad una specie di “melting pot” italiano. Sappiamo tutti che c’è moltissima strada da percorrere per giungere ad una società aperta, ad una società non egoista. Ci sono in Italia milioni di cittadini italiani discriminati per la lingua che parlano, per l’accento che li contraddistingue, per la statura, perché sono diversi da chi comanda o detiene il
potere. Le minoranze linguistiche e etniche italiane hanno sofferto assai in passato e molte sono state obbligate a ripiegarsi su se stesse per sopravvivere. Questo è tutto il contrario della società aperta. I problemi di queste minoranze non sono affatto risolti e a questi problemi si aggiungono ora quelli degli immigrati.
La società scolastica potrebbe fare qualcosa a loro favore:
-          rendere la scuola una buona scuola,
-          garantire a tutti, almeno negli anni della scolarizzazione, condizioni decorose di vita,
-          avere e pretendere il rispetto dei diversi,
-          abrogare i pregiudizi tra gli insegnanti,
-          predisporre orientamenti scolastici equi e non unilaterali o semplicistici,
-          dare ascolto alla sofferenza,
riconoscere tutte le richieste d’istruzione.
A queste condizioni anche il passaporto potrebbe diventare un buon viatico.

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