11 feb 2017

lo sviluppo di un paese passa per l’educazione linguistica: contro la lettera dei 600 e la nostalgia di una scuola classista (di s.giusti / c. raimo)

Puntuale come una festa patronale è arrivato qualche giorno fa l’intervento polemico sul declino scolastico dei ragazzi di oggi. Il Gruppo di Firenze, un piccolo novero eterogeneo e informale che si dichiara “per la scuola del merito e della responsabilità”, ha chiamato a raccolta seicento professori universitari, tra cui alcuni accademici della Crusca e rettori e alcuni editorialisti importanti (Massimo Cacciari, Paola Mastrocola, Ilvo Diamanti…), e ha pubblicato sul proprio blog – a partire da un appello del coordinatore del gruppo Giorgio Ragazzini – una lettera allarmata destinata al governo:
“È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare.”
La lettera suggerisce anche i rimedi a questo disastro:
1. revisione delle indicazioni nazionali per dare rilievo all’acquisizione delle competenze di base,
2. introduzione di verifiche nazionali periodiche,
3. partecipazione di docenti delle medie e delle superiori alle verifiche dei corsi di studi precedenti.
La lettera per intero è leggibile qui [e qui "il chiarimento"]
Con altrettanta prevedibilità l’eco a questa geremiade è stato un grido di dolore: autoflagellazione per i famosi bei tempi andati in cui a scuola si faceva sul serio non come oggi, e un dito puntato contro gli insegnanti della primaria che non sanno ottemperare al loro dovere.
Riconoscendone le buone intenzioni e il valore di aver portato la questione dell’educazione linguistica al centro del dibattito, fare le pulci nel merito e nel metodo alla lettera non è difficile ed è doveroso. Come da subito ha sottolineato lo storico Antonio Brusa, la chiamata alle armi dei seicento, pecca di impressionismo:
“Forse preoccupati di non mostrarsi spocchiosi, i 600 non citano un dato, una ricerca […] Si parla di scuola? E allora valgono le impressioni, le sensazioni personali.
Di poca informazione:
““Dichiara uno dei promotori che vorrebbe che nelle elementari le insegnanti promuovessero «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Bene: a p. 28 (http://www.indicazioninazionali.it/…/indicazioni_nazionali_) inizia la parte dedicata all’italiano delle Indicazioni. C’è tutto quello che i nostri eroi vorrebbero reintrodurre, dal dettato, alla scrittura in corsivo, alla grammatica, alla comprensione dei testi, ben distribuito fra traguardi da raggiungere in terza e in quinta primaria.”
Di miscomprensione del problema:
“Chi vuole fare questa battaglia, che è fondamentale per le sorti della nostra democrazia (e non solo per la correttezza ortografica delle tesi di laurea), dovrebbe capire che due sono i settori nei quali la situazione si sta incancrenendo: il primo è quello della formazione degli adulti. […] Il secondo, è quello della formazione dei professori e dei maestri”.
Un video di qualche tempo con un’intervista a Giorgio Ragazzini – il coordinatore del Gruppo di Firenze – mostra meglio l’ideologia del gruppo [video]: un misto di buon senso, un vago richiamo al a uno spirito civico che confina con il mos maiorum (onore, merito, severità, rigore…): “C’è chi si illude che con le riforme della didattica si possa incidere sul cattivo comportamento”. E in più una condivisibile preoccupazione per la dispersione scolastica, una problematica idea politica sulle scuole professionali.
La ministra dell’istruzione, Valeria Fedeli, si è sentita in dovere di rispondere, chiamando in causa la figura di Tullio De Mauro:
“Fu lui negli anni ’80 a farmi capire la necessità di un buon italiano e di una sua diffusione corretta e capillare tra i giovani. Ancora nel 2013 De Mauro ha messo in luce i ritardi rispetto alla media europea. Con il ministero dei Beni culturali, a questo fine organizzeremo una promozione della lettura dei libri extra-scolastici, con la Federazione della stampa porteremo i giornali nelle classi.”
Il ministero ha fatto anche di più, ha emanato una “circolare De Mauro”, eleggendo così il linguista da poco scomparso a nume tutelare delle iniziative di educazione alla lettura e di didattica delle lingue; il testo della circolare si può leggere per intero qui.
Ma la visione politica di De Mauro sottesa al suo impegno pluridecennale per l’educazione linguistica è ancora evidentemente fraintesa e continua a suscitare malumori per chi pensa che l’educazione linguistica sia un’altra cosa rispetto all’impegno per la democratizzazione della scuola, e consista essenzialmente nel buon uso dell’ortografia e non nel miglioramento di quella facoltà più ampia che è la literacy, la competenza linguistica. Un campione di questa distorsione è l’irritazione sfrenata di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere di un paio di giorni fa:
“Se da due, tre decenni le competenze linguistiche dei giovani italiani si stanno avviando verso la balbuzie twittesca qualche responsabilità, e non proprio minima, ce l’ha avuta proprio anche Tullio De Mauro”.
Per fortuna da anni in Italia su questi temi non si parte per niente da zero. Il documento che ha scritto Alberto Sobrero per il Giscel (il Gruppo di intervento e studio nel campo dell’educazione linguistica, che De Mauro stesso ha fondato e animato per molti anni) replica smontando una a una le soluzioni del gruppo di Firenze:
“1.Gli estensori del documento ritengono che debbano essere riviste [le indicazioni nazionali], per dare grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari, fissare i traguardi da raggiungere e proporre tipologie di esercitazioni. In realtà le Indicazioni contengono tutto questo, anzi sono caratterizzate proprio dall’insistenza sull’obiettivo del progressivo consolidamento delle competenze linguistiche e comunicative degli allievi, e dal ribadimento del ruolo centrale e trasversale – cioè proprio di tutte le materie – dell’educazione linguistica”.
2.La seconda proposta contenuta nella lettera-appello è drastica: invoca il controllo degli apprendimenti mediante ‘l’introduzione di momenti di seria verifica’: una misura efficace potrebbe essere, ad esempio, l’introduzione di verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo”: praticamente, almeno un test INVALSI all’anno. Un’aperta – e ben poco motivata – dichiarazione di incapacità, per i docenti del primo ciclo.
3. Ma è la terza proposta la più grave: chiede “la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria e all’esame di terza media, utile per stimolare su questi temi il confronto professionale tra docenti dei vari ordini di scuola”. Tradotto: chi sta sopra deve controllare chi sta in basso. Se ne deduce che docenti di scuola secondaria sono superiori non come ordine di scuola, in quanto successivo alla primaria, ma in quanto a preparazione professionale, che si esplica nella funzione di controllo dei subalterni.”
Così ci sono almeno due aspetti nocivi di questa lettera. Il primo è il contenuto ambivalente e di fatto reazionario. Varrebbe la pena riprendere quello che scriveva Pierre Bourdieu già cinquant’anni fa in Les heritiers e nella Distinzione per ammettere come le buone intenzioni dei 600 possano mascherare un classismo agguerrito. Marco Magni a questo proposito ha scritto un lungo post che vale la pena riportare quasi per intero:
“Il vero problema di questa lettera dei 600 sta nel fatto che vi si considerano la lingua e il suo apprendimento come qualcosa di neutro dal punto di vista sociale. L’ortografia, la grammatica, il lessico, come le “buone maniere”, hanno una connotazione sociale. Il bello scrivere è un segno di distinzione sociale, che viene assorbito inconsapevolmente prima di tutto nell’educazione familiare e poi riprodotto nella scuola. Un qualcosa di connotato socialmente che tuttavia diventa essenziale nella carriera scolastica così come per l’accesso alle posizioni qualificate del mercato del lavoro. […] La scuola valorizza la “brillantezza”, la “creatività” della scrittura, considerandole come qualità spirituali e disprezza gli aspetti tecnici e materiali dello scrivere, in ciò confermando il suo pregiudizio élitario. Ma, allora sbagliano i 600 dicendo che il problema è che nel primo ciclo non si fa dettato e grammatica, perché il problema riguarda invece l’intero apprendimento della lingua, che dovrebbe dare la loro importanza agli aspetti “tecnici” e “prosaici” del leggere e dello scrivere, ma considerandoli, per dirlo sbrigativamente, come un problema di “empowerment” di coloro – e sono la maggioranza – che sono esclusi, per la provenienza sociale, dalla cultura delle élites. Ma ciò può funzionare veramente solo se ortografia e grammatica vengono contestualizzati dentro la lingua intesa nel suo insieme, comprendendo l’interesse per il leggere, l’educazione del gusto estetico, lo spirito critico, ecc. Fare semplicemente “più dettati”, in assenza di tale contestualizzazione, significherebbe semplicemente confermare – come denunciava un tempo Don Milani – lo stigma per coloro che continuano a fare errori di dettato, semplicemente perché è loro estraneo il senso di ciò che stanno facendo”.
Il secondo aspetto discutibile di questa lettera è quella posa intellettuale che si basa sull’applicazione di un metodo incapace di tenere conto dei risultati della ricerca sociale e delle statistiche dell’apprendimento.
Cosa sappiamo infatti della scuola di ieri e di oggi? Siamo davvero in grado di parlare con cognizione di causa, dati alla mano, degli effetti dell’istruzione pubblica sugli studenti – di oggi come di ieri?
Per quanto l’Italia sia approdata tardi all’uso di prove standardizzate in grado di fornire una misura sufficientemente attendibile della padronanza dell’italiano e della matematica – la famigerata prova Invalsi – grazie al lavoro dello stesso ministero dell’istruzione, dell’Istat, dell’Isfol e, a livello internazionale, dell’Ocse e di Eurostat, è possibile individuare e descrivere alcuni dei principali problemi del sistema scolastico italiano, soprattutto in relazione all’uso della lingua.
Cominciamo col dire, dati Istat alla mano, che nel 1951, all’inizio dell’età repubblicana, gli analfabeti censiti sono il 12,9 per cento della popolazione, 17,9 per cento sono gli alfabeti privi di titolo, 59 per gli italiani con licenza elementare, 5,9 per cento con licenza media, 3,3 per cento diplomati e 1 per cento laureati. Nel 2001, dopo cinquanta anni di scuola pubblica, si è passati all’1,5 per cento di analfabeti dichiarati, 9,7 per cento di alfabeti privi di titolo, 25,4 con licenza elementare, 30,1 per cento con licenza media, 25,9 per cento diplomati e 7,5 per cento laureati.
Non è un risultato pienamente soddisfacente (a paragone degli altri paesi sviluppati abbiamo ancora basse percentuali di diplomati e laureati), ma è pur sempre un cambiamento epocale, che ha portato a una drastica riduzione dell’analfabetismo e a un innalzamento considerevole dei livelli di istruzione.
Secondo le indagini nazionali e internazionali, tuttavia, non tutti i nuovi cittadini riescono a completare il percorso di istruzione; i dati sulla “dispersione”, ovvero l’abbandono precoce della scuola, risultano tra i più alti nell’Unione Europea (15 per cento secondo i dati forniti dall’indagine Eurydice La lotta all’abbandono precoce dei percorsi di istruzione e formazione in Europa).
Il fenomeno sembra in lieve diminuzione, ma come sottolineato nell’introduzione all’edizione italiana del rapporto OCSE: Skill Out 2013, i dati sono discordanti e in alcune ricerche raggiungono il 26 per cento.
Se si incrociano queste cifre con le informazioni che ci fornisce l’Istat sulla correlazione tra i risultati scolastici e l’estrazione sociale della famiglia d’origine (ovvero con i livelli di istruzione dei genitori e con la loro situazione lavorativa) allora è chiaro che la scuola italiana rimane una scuola classista: non riesce ancora – ammesso che voglia davvero essere una scuola per tutti – a dare un servizio soddisfacente soprattutto a chi ne ha più bisogno; mentre funziona meglio per chi può avere maggiore sostegno dalla famiglia d’origine (report Istat La scuola e le attività educative)
Sempre secondo il rapporto OCSE: Skill Out 2013 in alcune nazioni più che in altre (tra cui appunto c’è l’Italia oltre l’Inghilterra, la Germania, la Polonia e gli Stati Uniti) la condizione sociale ha un impatto significativo sulle competenze in literacy.
In queste nazioni, infatti – si legge nel rapporto – “i figli dei genitori con un basso livello di istruzione hanno una padronanza decisamente inferiore rispetto a quelli che hanno livelli più elevati di istruzione”.
Anche per questo, dovendo pensare a strategie di ampio respiro per migliorare i livelli di alfabetizzazione, è imprescindibile coinvolgere gli adulti innalzando il loro livello di istruzione e, in generale, le loro competenze di lettura e di scrittura.
Non ha senso partire dalle impressioni, insomma: esistono, e possono essere presi come riferimenti, documenti e esperienze di grande valore. È utile leggersi il rapporto finale della commissione sul progetto Piaac, datato 2013. (Piaac sta per Programme for International Assessment of Adult Competencies (PIAAC), ossia un’iniziativa dell’Ocse volta a misurare il livello di possesso di quelle competenze o abilità chiave nell’elaborazione delle informazioni che sono considerate essenziali per la piena partecipazione di cittadini adulti al mercato del lavoro e alla vita sociale di oggi.)
Da questa ricerca infatti, risulta chiaro che solo il 30 per cento degli adulti italiani – pur dotati di titoli di studio acquisiti in una scuola più “tradizionale” – è in possesso delle competenze necessarie minime per poter vivere e lavorare in modo adeguato al giorno d’oggi.
Al di là del giudizio impietoso sugli effetti quantomeno poco duraturi dell’intero sistema d’istruzione, il dato deve far riflettere sull’isolamento della scuola, che è chiamata ad affrontare compiti sempre nuovi in un mondo complesso senza poter contare sul sostegno di una società incapace di dare il suo contributo.
In un programma molto articolato, ci sono dei punti qualificanti nel rapporto Piaac proprio per il dibattito che stiamo affrontando: quando si propone per esempio di
“valorizzare e sviluppare le università della terza età, le scuole popolari, i centri anziani etc. per il mantenimento delle competenze cognitive della popolazione adulta e soprattutto senior, per l’invecchiamento attivo e la prevenzione sanitaria. In Italia c’è ricchezza di organizzazioni/associazioni non-profit e a partecipazione pubblica che svolgono attività di apprendimento degli adulti e della popolazione senior”
oppure di
“facilitare l’ingresso di tutti i cittadini (inclusi quelli di recente immigrazione) nelle reti di informazione, promuovendo la diffusione delle reti in tutte le famiglie e l’apprendimento all’uso con formazione tipo e-citizen con il supporto di giovani tutor; – fare delle sedi scolastiche luoghi dell’apprendimento culturale collettivo (“Fabbriche della Cultura” sul modello “olivettiano”) aperti anche il pomeriggio e il sabato per favorire nuove iniziative di learning by doing, accogliere corsi e seminari di aggiornamento, agevolare l’accesso alle biblioteche scolastiche, introducendo anche una piattaforma di networking delle scuole”,
o ancora di
“avviare progetti di diffusione della lettura, anche e soprattutto per gli adulti, nelle biblioteche scolastiche e comunali, permettendo l’acquisto di libri a prezzi vantaggiosi, promuovendo o finanziando iniziative culturali”.
Si capisce bene che c’è una prateria sconfinata oltre il dettato o l’incremento delle verifiche a scuola per migliorare la competenza linguistica degli studenti universitari e degli adulti in generale.
E possiamo trovare molti altri indici che ci aiutano a comprendere come le carenze di base anche permanenti non siano causate da un malfunzionamento della scuola primaria, ma da diverse ragioni di contesto.
Solo per fare un esempio paradigmatico, avere genitori che leggono rappresenta un fattore che influenza i comportamenti di lettura dei figli, considerando che dal 2010 al 2015 si registra una costante diminuzione del già bassissimo numero di lettori (dal 46 per cento al 42 per cento quelli che hanno letto almeno un libro nei dodici mesi precedenti).
Se quindi una delle miopie di questo genere di dibattiti è quella di pensare la scuola come la maggiore se non l’unica responsabile delle carenze sulla literacy, e che gli interventi per riparare il disastro in corso siano i corsi di grammatica di base all’università, si può invece e aguzzare e allargare il nostro sguardo alle molte iniziative che cercano di affrontare in tutta la fase evolutiva la questione del decremento delle abitudini di lettura o dell’analfabetismo di ritorno.
Solo tenendo conto che le carenze della scuola sono il riflesso di mancate politica dell’educazione che riguardano tutta la società, si capisce bene che le competenze linguistiche ovviamente non sono l’esito di quello che si fa a scuola, ma di quello che si vede in tv, o si legge sui giornali, in rete. E a questo punto si può riconoscere nella formazione degli adulti lo spettro d’analisi come come quello d’intervento.
Cosa si può fare? Dal 2013 è stata depositata dai deputati Giancarlo Giordano, Celeste Costantino e Nicola Fratoianni in commissione cultura una legge per la promozione alla lettura. È stata elaborata sull’esempio di quella spagnola dal Forum del libro, e nonostante abbia trovato nel frattempo l’appoggio di una larghissima maggioranza e la buona volontà della stessa presidente della commissione cultura, Flavia Piccoli Nardelli, manca di coperture finanziarie ed è in stallo.
Cosa si fa già? In Italia esiste e andrebbe valorizzata, finanziata, sistematizzata una rete di iniziative di educazione alla lettura: anche qui il Forum del libro ne aveva fatto un censimento e si può trovare sul sito del Cepell, il centro per il libro e la lettura.
La scuola non deve fare tutto e non può tutto, a partire dall’evidente condizione di svantaggio in cui opera: grandi masse di analfabeti di ritorno, scarsamente propensi alla lettura di giornali e di libri, incapaci di usare in modo consapevole le tecnologie.
Eppure, come ha notato sul suo blog Mariangela Galatea Vaglio in risposta alla lettera dei seicento, alla scuola si chiede di tutto: “unico presidio dello stato sociale sul territorio, unica reale interfaccia con le famiglie”, alla scuola si chiede di risolvere o alleviare problemi che sono quelli della sua funzione primaria, l’istruzione.
Insieme ai servizi sociosanitari, le scuole autonome, quelle nate per effetto del decreto 297 del 1994, si sono ritrovate a rappresentare, all’interno delle loro comunità, dei presidi di democrazia. Le istituzioni scolastiche, specialmente quelle del primo ciclo – proprio negli anni in cui venivano tagliati i finanziamenti pubblici al settore, prima gradualmente e poi più drasticamente – si sono impegnate nella lotta alla dispersione e nel contrasto al disagio sociale, nell’inclusione degli alunni disabili, nell’educazione linguistica degli alunni stranieri e nell’accoglienza delle loro famiglie, nella promozione della lettura, nell’orientamento, nell’educazione all’uso delle tecnologie: sono diventate in molti paesi e città il centro di una serie di attività che forse avrebbero potuto essere affidate ad altri soggetti (le biblioteche? le circoscrizioni? i centri sociali? i centri per l’impiego?) e che comunque avrebbero richiesto maggiori investimenti da parte dello stato.
Usare la scuola come una sorta di agenzia di cittadinanza è compatibile con il perseguimento di una piena padronanza della lingua italiana? Probabilmente sì, e per chi scrive è anche necessario, vista l’urgenza di rompere il circolo vizioso tra contesto socioeconomico, competenze della famiglia d’origine e possibilità di raggiungere un livello adeguato di istruzione.
Ma abbiamo bisogno di una scuola attiva sul territorio, capace di includere e di educare, ma non possiamo e non vogliamo negare la necessità di dotare tutti gli alunni delle competenze di base. Per fare questo, è evidente, occorrono finanziamenti adeguati.
“Poiché sviluppare le competenza della popolazione è costoso”, si legge ancora nel rapporto OCSE: Skill Out 2013, “le nazioni devono ragionare per priorità quando ci sono poche risorse, e progettare le proprie politiche connesse allo sviluppo di competenze in modo che portino i maggiori benefici possibili all’economia e alla società”. Questo non significa che ciascuno può stilare un elenco delle priorità, o che occorre semplicemente incrementare la percentuale di Pil da destinare all’istruzione.
Significa principalmente che occorre ripensare a livello nazionale – e non, quindi, scuola per scuola, all’interno dei singoli territori, o solo per alcuni ordini o indirizzi di scuola rispetto ad altri – l’intero sistema dell’istruzione, e non allo scopo di scrivere un’ennesima riforma, quanto semmai per negoziare obiettivi di medio e di lungo periodo da perseguire con un largo consenso sociale.
Anche per questo non ha senso l’idea di partire dal problema della “correttezza ortografica e grammaticale” o dalla soluzione del “dettato ortografico” (un ulteriore parere convincente è quello di Rita Bortone).
Il punto non è se le persone siedono a tavola in modo più o meno appropriato, ma se sono o no in grado di procurarsi da mangiare. Il problema, per richiamare un termine più volte usato in precedenza, non è la “grammatica” ma la literacy, cioè la capacità di comprendere, valutare e usare in maniera consapevole testi scritti per far parte della società, raggiungere i propri obiettivi e sviluppare la propria conoscenza e le proprie potenzialità (definizione dell’Ocse).
Senza un adeguato livello di padronanza in literacy, ci dicono le ricerche internazionali, le persone non fanno brutta figura all’università, ma hanno una vita più breve e maggiori possibilità di ammalarsi, hanno meno senso civico e meno fiducia negli altri, lavorano di più per guadagnare di meno.
In una nazione che non riesce a garantire a tutti il conseguimento dell’istruzione di base e che, soprattutto, non riesce a dare a tutti le competenze necessarie al pieno godimento dei propri diritti e al soddisfacimento dei propri bisogni, è evidente che dobbiamo avviare una seria riflessione sulla scuola e sull’università, ma è altrettanto evidente che questa riflessione non può essere guidata da sentimenti nostalgici, da ideologie classiste o da interessi di categoria.
Da dove ricominciare allora? A chi spetta decidere il destino della scuola e dell’università? E come, con quale metodo? Sembra che l’approccio usato negli ultimi vent’anni non abbia sortito grandi effetti. Le richieste provenienti dall’Unione Europea – tutte dettate dalla necessità di far dialogare tra loro i diversi sistemi nazionali e di migliorare i risultati di apprendimento nelle cosiddette competenze chiave – hanno avuto un impatto considerevole sulle indicazioni nazionali senza ottenere grandi cambiamenti, non in positivo almeno, a giudicare dal clima che si respira all’interno delle scuole e delle università.
Proviamo anche in questo caso a ripartire dalla lezione di Tullio De Mauro, un intellettuale che ha saputo tenere insieme il lavoro di ricerca, la didattica e l’impegno nella scuola e nella società, con la consapevolezza che per fare ricerca nell’ambito della didattica occorre disporre di una base dati statisticamente valida e di conoscenze e competenze di altri ambiti disciplinari. (Qui si può leggere un ricordo di Emanuela Piemontese che ne mette in luce la complessità di questo approccio politico).
In fondo si tratta di riconoscere che i problemi educativi riguardano i diritti primari dei cittadini – di tutti i cittadini, non dei loro familiari o dei potenziali datori di lavoro – e che gli apprendimenti incidono direttamente sul corpo delle persone, come ci insegnano le neuroscienze.
Non è proprio possibile, quindi, parlarne in modo impressionistico, senza tener conto della vituperata pedagogia e delle scienze sociali e psicologiche.
Qualunque sia la strada che si percorrerà in futuro, ammesso che si voglia davvero iniziare un percorso di cambiamento, non sarebbe da evitare l’errore già compiuto nel recente passato da quei politici che – dimenticandosi di essere anche accademici e scienziati – hanno introdotto nelle scuole innovazioni di metodo, nuove strumentazioni tecnologiche (il tablet, la lavagna elettronica, per dire) nelle scuole, dimenticandosi di indicare i cambiamenti attesi, senza individuare indicatori attendibili e, quindi, evitando di sottoporre a una qualche verifica il reale impatto sugli apprendimenti delle persone.
Non sarebbe ora di terminare con una tregua e poi con una pace duratura la guerra santa tra i cosiddetti “disciplinaristi” e i pedagogisti, iniziata all’incirca vent’anni fa, quando sono state istituite le Ssis, le Scuole di specializzazione per l’insegnamento superiore, e che poi è proseguita nei Tfa e nei Pas?
Chi ha assistito a quelle lezioni ha potuto constatare la separazione netta, spesso ideologica, tra scienze pedagogiche e altri ambiti disciplinari, tra chi trasmetteva i contenuti senza tenere conto dell’uditorio e chi insegnava come insegnare senza tenere conto della materia. La conseguenza inevitabile è stata ed è ancora la scarsa qualità di quei corsi, caratterizzati – soprattutto nell’area umanistica – dalla frammentazione dei saperi e da un eccesso di specializzazione, una specializzazione tecnicistica, priva di basi scientifiche condivise.
Allo stesso modo, tipico di questo approccio ascientifico è l’abuso che è stato fatto delle prove Invalsi, nate per poter finalmente disporre di una base dati attendibile e poi usate, anzi propagandate, come strumento di verifica e di valutazione degli apprendimenti dei singoli alunni.
È per questo che uno strumento scientifico – utile a garantire il controllo democratico di un sistema di istruzione pubblico – è stato percepito come l’ennesima pratica burocratica sfruttata per vessare scuole e alunni. Ed è sempre per questo che negli ultimi anni si sono diffuse pratiche didattiche sempre più focalizzate sul conseguimento rapido e immediato di obiettivi di apprendimento misurabili con metodi standardizzati (i test), a discapito degli approcci più attivi e partecipativi, che ovviamente richiedono tempi lunghi e condizioni meno stressanti.
Perché allora, per rimediare a questo deficit di scientificità e a questo rifiuto di una pedagogia seria e non impressionistica, dettati spesso da pigrizia e conservatorismo, non ricominciare proprio dalla ricerca scientifica e dall’insegnamento universitario? Perché non rompere il più grande e il più classista dei tabù, quello dell’ineffabilità del docente universitario, chiamato al grande compito di formare i futuri insegnanti delle scuole di ogni ordine e grado per gli anni, i decenni e i secoli a venire, senza che abbia egli stesso ricevuto un’adeguata formazione e, soprattutto, senza che abbia accesso alle conoscenze e agli strumenti messi a disposizione ormai da decenni dalle scienze sociali, psicologiche e pedagogiche?
Nella vicina Svizzera, per esempio, è normale che i docenti universitari dispongano di una squadra di formatori esperti in pedagogia e in didattica coi quali fare formazione, consulenza individuale, coaching e supervisione; ed è altrettanto normale che la formazione degli insegnanti sia affidata a una scuola professionale universitaria in cui lavorano esperti di didattica delle discipline e non dei ricercatori e docenti di letteratura, di matematica, ecc., prestati temporaneamente alla didattica.
A partire da qui, dotati di una cultura pedagogica di base e molto consapevoli dello status quo, che può svilupparsi un ragionamento importante sulle politiche dell’istruzione e sull’uso dell’italiano da parte degli studenti anche in ambito universitario. Così magari in futuro persino prossimo ci saranno più progetti di lunga durata e meno lettere scritte di getto sull’onda dell’indignazione.
di Simone Giusti e Christian Raimo pubblicato giovedì, 9 febbraio 2017 da
 

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