13 feb 2017

saper scrivere è così importante? (di claudio giunta)

Tra i colpevoli della notevole inabilità alla scrittura di buona parte degli studenti italiani ci sono anch’io.
Ho appena messo 18 al compito scritto di uno studente della laurea magistrale in Lettere (quinto anno di università) che meritava invece di essere bocciato perché, a parte conoscere maluccio il programma, ha grosse difficoltà nello scrivere: mette male la punteggiatura, usa i verbi sbagliati, confonde le preposizioni (scrive per esempio che «la squadra ha l’intenzione a partecipare», anziché “di partecipare”) non sa fare un riassunto, nel senso che invece di riassumere l’intero brano assegnato sintetizzandone il contenuto lo riassume frase per frase: «L’autore di questo brano dice che... Poi dice che... Poi dice che...», e così via. Lo studente che io adesso promuovo potrebbe prima o poi diventare un insegnante, e con un insegnante simile i suoi futuri studenti certamente non impareranno a scrivere (ci si potrebbe domandare: può questo aspirante insegnante imparare a scrivere nei prossimi anni, tra il suo quinto anno di università e la sua eventuale, speriamo scongiurabile, entrata in servizio? No, non può, non s’impara a scrivere a ventitré anni). E allora perché l’ho promosso? Dato che si discute, in questi giorni, della cattiva scrittura degli studenti, mi pare che la risposta a questa domanda possa interessare tutti. Ma non c’è una sola risposta, ce ne sono molte, o meglio c’è una risposta che si complica, si sfrangia in tante risposte più piccole, una causa che si può scomporre in concause.
Diciamo intanto che lo studente a cui ho dato 18 ha ripetuto l’esame quattro volte. La quarta è andata meglio delle tre precedenti, nel senso che lo studente non ha smesso di impegnarsi: ha letto, ha studiato. Ma, quanto alla scrittura, non può fare più di così: avrebbe dovuto imparare a scrivere decentemente molti anni fa, ma non ha imparato, e adesso è tardi. Alla quarta volta l’ho promosso perché, come mi ha ripetuto fino alla nausea, il mio è «il suo ultimo esame», la tesi è già pronta da tempo, ed è una tesi che non riguarda la mia materia: lo studente si laureerà in storia contemporanea. Bocciarlo ancora (e poi ancora, e ancora) avrebbe voluto dire impedirgli di laurearsi, fargli buttare via gli studi di cinque anni, rovinargli l’esistenza. Tra l’altro, lo studente non è affatto sciocco, e ha un libretto più che dignitoso. Non sa scrivere in un italiano decente, ma ha una media del 27-28, alcuni 30. Esami orali, voti in parte anche meritati. Di fatto, il mio è uno dei non molti esami scritti che ci siano a Lettere; i pochi altri sono test a crocette, o sono esami scritti in cui il docente (legittimamente?) bada più al contenuto che alla forma. Ma insomma, alla quarta volta – lo studente è civile, è anche, ripeto, intelligente – non me la sono sentita di bocciarlo ancora, e gli ho regalato un voto.

il miur invita la scuola a raccogliere l'eredità di tullio de mauro

A un mese dalla scomparsa, avvenuta il 5 gennaio 2017, di Tullio De Mauro, professore emerito di Linguistica generale ed ex Ministro dell’Istruzione, il MIUR ha invitato con la circolare n. 1 del 3/2/2017 le scuole italiane a raccogliere la sua eredità, traducendola in attività didattiche e di formazione con le stesse finalità che hanno contraddistinto il suo pensiero: innalzare le competenza linguistiche di tutti per un effettivo esercizio dei diritti di cittadinanza.
I docenti sono invitati, partendo dalle idee di De Mauro,  ad affrontare e discutere i temi di come l’insegnamento dovrebbe cambiare e di cosa la scuola dovrebbe fare per meglio adempiere ai suoi compiti di inclusione sociale, di riduzione delle disuguaglianze, di innalzamento dei livelli culturali del paese.

MIUR C.M. 1 del 03/02/2017: [clicca qui]

Di seguito l’intervista rilasciata il 28 marzo 2016 a La Voce di New York a cura di Filomena Fuduli Sorrentino

 

L’analfabetismo italiano e la Repubblica fondata sull’ignoranza

L'intervista con il linguista Tullio De Mauro sui nuovi dati dell’analfabetismo in Italia 

Secondo gli studi dell'autorevole linguista De Mauro, meno di un terzo della popolazione italiana avrebbe i livelli di comprensione della scrittura e del calcolo necessari per orientarsi nella vita di una società moderna. Il peso sullo sviluppo economico e sociale resta enorme

Tullio De Mauro è il più autorevole linguista italiano. De Mauro ha insegnato linguistica  in diverse università italiane e ha diretto il Dipartimento di Scienze del Linguaggio nella Facoltà di Filosofia, e successivamente il Dipartimento di Studi Filologici, nella Facoltà di Scienze Umanistiche dell’Università la Sapienza di Roma. Già ministro della pubblica istruzione (aprile 2000-giugno 2001, governo Amato), ha presieduto la Società di Linguistica Italiana (1969-73) e la Società di Filosofia del Linguaggio (1995-97). Nel novembre 2006 ha contribuito alla fondazione dell’associazione Senso Comune per un progetto di dizionario informatico, di cui è tuttora presidente. È socio ordinario dell’Accademia della Crusca, e dal novembre 2007 dirige la Fondazione Maria e Goffredo Bellonci. De Mauro presiede il comitato direttivo del Premio Strega. Ha scritto moltissimi libri, tra i quali il recente Storia linguistica dell’Italia repubblicana (Laterza, Bari 2014).
Professor De Mauro, nel 2010 aveva condotto uno studio sull’analfabetismo in Italia.  Ci fa il punto sui  dati raccolti allora, sulle novità e come si dividono? 
“Da molti anni, perlomeno dalla Storia linguistica dell’Italia unita del 1963, ho cercato di raccogliere dati sull’analfabetismo strumentale (totale incapacità di decifrare uno scritto) e funzionale (incapacità di passare dalla decifrazione e faticosa lettura alla comprensione di un testo anche semplice) e ho cercato di richiamare l’attenzione dei miei illustri colleghi sul peso che l’analfabetismo ha sulle vicende linguistiche e, ovviamente, sociali in Italia. Avevamo dati sull’analfabetismo strumentale, ma per l’analfabetismo funzionale avevamo solo sondaggi parziali e ipotesi, a elaborare le quali abbiamo lavorato a lungo in diversi, ricordo qui almeno e soprattutto il professor Saverio Avveduto a lungo presidente dell’UNLA (Unione Nazionale per la Lotta all’Analfabetismo). Dai tardi  anni novanta dello scorso secolo per merito di Statistics Canada (il centro statistico nazionale canadese) sono state promosse accurate indagini comparative e osservative su estesi campioni statistici delle popolazioni per determinare  diversi gradi di analfabetismo nei diversi paesi del mondo. Già nel 2005 ho potuto utilizzare questi dati. Nel 2014 è giunta a compimento la terza indagine comparativa internazionale gestita dall’OCSE (l’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico).  L’indagine è chiamata PIAAC, Programme for International Assessment of Adult Competencies), e per quasi trenta paesi del mondo, tra cui l’Italia,  ha definito cinque livelli di alfabetizzazione in  literacy e numeracy delle popolazioni  in età di lavoro (16-65 anni), dal livello minimo di analfabetismo strumentale totale, a un secondo livello quasi minimo e comunque insufficiente alla comprensione e scrittura di un breve testo, ai successivi tre gradi di crescente capacità di comprensione e scrittura di testi, calcoli, grafici.   Dati analitici sul nostro e altri paesi possono trovarsi in un mio libro più recente, Storia linguistica dell’Italia repubblicana (Laterza, Bari 2014). Qui il nostro focus è l’Italia. Come in Spagna il 70% della popolazione in età di lavoro si colloca sotto i due primi livelli. Soltanto un po’ meno di un terzo della popolazione ha quei livelli di comprensione della scrittura e del calcolo dal terzo livello in su che vengono ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna. Ma il fenomeno ha gravi dimensioni in tutti i paesi studiati anche se nessuno raggiunge i livelli negativi di Italia e Spagna. Più della metà della popolazione è in condizioni che potremmo dire “italo-spagnole” negli USA e (a decrescere), in Francia, Gran Bretagna, Germania ecc. Perfino in paesi virtuosi, per eccellenza dei sistemi scolastici e diffusione della lettura, si trovano percentuali di analfabeti prossime al 40%: così in Giappone, Corea, Finlandia, Paesi Bassi.
Il problema dunque, pur a diversi livelli di gravità, non è solo italiano. Anche dopo avere acquisito buoni, talora eccellenti livelli di literacy e numeracy in età scolastica, in età adulta le intere popolazioni sono esposte al rischio della regressione verso livelli assai bassi di alfabetizzazione a causa di stili di vita che allontanano dalla pratica e dall’interesse per la lettura o la comprensione di cifre, tabelle, percentuali. Ci si chiude nel proprio particolare, si sopravvive più che vivere e le eventuali buone capacità giovanili progressivamente si atrofizzano e, se siamo in queste condizioni, rischiamo di diventare, come diceva Leonardo da Vinci, transiti di cibo più che di conoscenze, idee, sentimenti di partecipazione solidale”.
L’analfabetismo fa credere che la realtà sia diversa da quella vissuta. Quali sono i problemi che il nostro paese affronta a causa dell’inconsapevolezza dei cittadini?
“I problemi sono molti. Mi limiterò qui a ricordare solo quel che illustri economisti come Luigi Spaventa o Tito Boeri hanno spiegato: il grave analfabetismo strumentale e funzionale incide negativamente sulle capacità produttive del paese e, a loro avviso, è responsabile del grave ristagno economico che affligge l’Italia dai primi anni novanta”.
Qual è la percentuale degli italiani che ha una comprensione dei discorsi politici o che capisca come funzioni la politica italiana?
“È certamente inferiore al 30%”.
Secondo Socrate “c’è un solo bene: il sapere. E un solo male: l’ignoranza”. Oggi si combatte l’analfabetismo altrui oppure si usa come arma di sfruttamento per arrivare al potere?
“Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni”.
Qual è la percentuale degli italiani che ha comprensione dei vocaboli ambigui e di locuzioni straniere usati dai politici e dalla TV?
“All’interno del 30% di meglio alfabetizzati solo una percentuale modesta ha una buona conoscenza di lingue straniere e di linguaggi tecnico-scientifici. In attesa di indagini mirate e specifiche, che stiamo avviando, si può ipotizzare che solo il 10% della popolazione in età di lavoro capisce bene tecnicismi e forestierismi”.
Secondo Lei il governo italiano fa abbastanza per il mantenimento e l’insegnamento della lingua italiana all’estero?
“Ci sono da qualche tempo molte buone intenzioni, ma scarseggiano iniziative di sostegno paragonabili a quelle delle istituzioni pubbliche che promuovono lo studio delle lingue di altri paesi. British Council, Cervantes, Centre Culturel Français, Confucio, Japan Foundation, Goethe, … . La Dante Alighieri ha nome analogo ad alcune grandi ed efficienti istituzioni straniere, ma, anche se con un  po’ di finanziamenti pubblici, è lontana per struttura e natura dal poter assolvere ai compiti della complessiva promozione della lingua e cultura dell’Italia fuori di Italia. Di più potrebbero fare i nostri Istituti di cultura se fossero più numerosi nel mondo e ben sostenuti da finanziamenti statali.  Resta da sperare (e a mio avviso non è poco) nel faidatè dei milioni di italiani e oriundi italiani sparsi nel mondo”.
Filomena Fuduli Sorrentino, pubblicato il 28 marzo 2016 da La Voce di New York

12 feb 2017

gramsci tra i banchi della guinea bissau (di cosimo quaratino)

Africa. Nell’arcipelago Bijagòs, in assoluta autonomia dalle autorità, 1500 studenti e 60 insegnanti promuovono un sistema scolastico autogestito e bilingue. Con un occhio alle teorie dell’intellettuale italiano e all’alfabetizzazione di massa di Fidel. E un obiettivo: sconfiggere la marginalizzazione economica

Mi dà il benvenuto: «E adesso andiamo a riposare un paio d’ore, bisogna aspettare l’alta marea, si parte all’alba». Mi accoglie così, padre Luigi, all’aeroporto di Bissau, con un saluto essenziale e un programma tassativo. Qualche ora dopo la canoa prenderà a galleggiare e i marinai potranno finalmente avviare il motore.
CI VORRANNO QUASI CINQUE ORE per arrivare a Bubaque, nell’arcipelago Bijagòs, ottanta isole di cui soltanto diciannove con alcuni piccoli villaggi di capanne. Sessantaquattro chilometri quadrati di foresta in mezzo al mare.
Padre Luigi Scantamburlo, missionario del Pime (Pontificio istituto per le missioni all’estero) vive nell’arcipelago dal 1975.

Arrivò qui che erano trascorsi appena due anni dalla liberazione della Guinea dal dominio coloniale portoghese e un anno dalla rivoluzione dei garofani a Lisbona. Nel 2013 andai a incontrarlo per la prima volta a Bubaque, lui mi aspettava al molo, notò una copia sgualcita de il manifesto che spuntava da una tasca della mia borsa e ricordò che quando era in seminario a Milano gli piaceva leggere questo giornale e che da ragazzo aveva anche diffuso l’Unità al suo paese, San Liberale di Marcon, vicino Venezia.

11 feb 2017

lo sviluppo di un paese passa per l’educazione linguistica: contro la lettera dei 600 e la nostalgia di una scuola classista (di s.giusti / c. raimo)

Puntuale come una festa patronale è arrivato qualche giorno fa l’intervento polemico sul declino scolastico dei ragazzi di oggi. Il Gruppo di Firenze, un piccolo novero eterogeneo e informale che si dichiara “per la scuola del merito e della responsabilità”, ha chiamato a raccolta seicento professori universitari, tra cui alcuni accademici della Crusca e rettori e alcuni editorialisti importanti (Massimo Cacciari, Paola Mastrocola, Ilvo Diamanti…), e ha pubblicato sul proprio blog – a partire da un appello del coordinatore del gruppo Giorgio Ragazzini – una lettera allarmata destinata al governo:
“È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare.”
La lettera suggerisce anche i rimedi a questo disastro:
1. revisione delle indicazioni nazionali per dare rilievo all’acquisizione delle competenze di base,
2. introduzione di verifiche nazionali periodiche,
3. partecipazione di docenti delle medie e delle superiori alle verifiche dei corsi di studi precedenti.
La lettera per intero è leggibile qui [e qui "il chiarimento"]
Con altrettanta prevedibilità l’eco a questa geremiade è stato un grido di dolore: autoflagellazione per i famosi bei tempi andati in cui a scuola si faceva sul serio non come oggi, e un dito puntato contro gli insegnanti della primaria che non sanno ottemperare al loro dovere.
Riconoscendone le buone intenzioni e il valore di aver portato la questione dell’educazione linguistica al centro del dibattito, fare le pulci nel merito e nel metodo alla lettera non è difficile ed è doveroso. Come da subito ha sottolineato lo storico Antonio Brusa, la chiamata alle armi dei seicento, pecca di impressionismo:
“Forse preoccupati di non mostrarsi spocchiosi, i 600 non citano un dato, una ricerca […] Si parla di scuola? E allora valgono le impressioni, le sensazioni personali.
Di poca informazione:
““Dichiara uno dei promotori che vorrebbe che nelle elementari le insegnanti promuovessero «dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano». Bene: a p. 28 (http://www.indicazioninazionali.it/…/indicazioni_nazionali_) inizia la parte dedicata all’italiano delle Indicazioni. C’è tutto quello che i nostri eroi vorrebbero reintrodurre, dal dettato, alla scrittura in corsivo, alla grammatica, alla comprensione dei testi, ben distribuito fra traguardi da raggiungere in terza e in quinta primaria.”

1 feb 2017

la deportazione raccontata ai bambini (di enrico manera)

Libri recenti e incontri nelle scuole con insegnanti e studenti sono l'occasione per ragionare su come parlare ai bambini e alle bambine di qualcosa di enormemente doloroso come persecuzione, deportazione e genocidio, tanto più smisurato quando si abbatte su soggetti come i bambini.
La violenza nei loro confronti distrugge anche la fiducia e la cura che ogni piccola esistenza chiede a quella adulta; e così la dimensione di futuro potenziale che ogni bambino o bambina ha in sé.
Per i bambini, prendere atto di questo è di particolare impatto. Per gli educatori significa anche rischiare di minare la fiducia nel mondo, negli adulti, nel futuro appunto.
La memoria della Shoah nella sua interezza è qualcosa che non può essere rovesciata addosso ai bambini ma che deve essere affrontata con estrema sensibilità, anche al fine di evitare reazioni difensive di rifiuto, di smarrimento o perfino di oscura colpevolizzazione.
Il problema non è nuovo e sono in diversi a essersene occupati. Nel 2004 a Torino un convegno promosso dall'Istoreto ha proposto una grande riflessione su tempi, strumenti e metodi per parlare di questo tema, individuando gli elementi fondamentali di una riflessione storicamente corretta e pedagogicamente avvertita (qui la versione digitale degli atti).
Il curatore Alberto Cavaglion scriveva: «continuo a pensare che i 13-14 anni siano l’età giusta, ritenendo sia un dovere dell’educatore proteggere l’infanzia, lasciando il più possibile libero lo spazio necessario al gioco, alla libertà inventiva. Riconosco tuttavia che molte delle esperienze descritte incrinano le mie (poche) certezze».
Recentemente Cywiński, direttore del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau, ha scritto: «Non sono sicuro che quattordici anni sia l’età giusta per visitare Auschwitz. Allora quale sarebbe l’età giusta? Non esiste. Proprio come nella storia “ogni epoca ha i suoi costumi e le sue norme comportamentali”, così anche ogni età della vita di una persona è diversa dalle altre».
Negli ultimi anni il curriculum verticale e le Indicazioni nazionali hanno di fatto espunto la storia contemporanea dai programmi delle elementari (la si incontra ufficialmente nella scuola media), lasciando però ampio spazio alla possibilità di ragionare su temi di rilevanza etica affrontando la storia locale e il calendario civile. Sempre più si sente l'esigenza di avvicinare i piccoli cittadini a una memoria comunitaria e di cittadinanza; a ciò si aggiunga il fatto che rappresentazione della Shoah nel frattempo si è diffusa a livello molto ampio in molteplici aspetti della cultura (storiografia, film, libri, fumetti, mostre...), e tra i tanti aspetti di una adultizzazione precoce, la pervasività dell'informazione raggiunge molti bambini, che tendenzialmente alle scuole elementari conoscono già molto, anche se magari troppo e male, della dimensione di violenza del sistema di concentramento e sterminio.
Per questo è sempre opportuno sondare le conoscenze pregresse dei piccoli studenti/studentesse prima di qualsiasi percorso, e conoscere le informazioni che nelle classi vengono condivise; ed è necessario saper rispondere alle domande, in questo caso come negli altri. Il problema è come permettere loro di appropriarsi di quelle storie, a quale livello di dettaglio anche in relazione ad altre conoscenze.
Dal convegno torinese non emergono irrealistiche ricette universalmente valide ma idee guida per sviluppare una forte sensibilità per pensare l’insegnamento/apprendimento dell'universo  concentrazionario e sterminazionista «come percorso, che si avvia nella scuola elementare e prosegue negli anni della formazione del ragazzo, su elementi di complessità e peso crescenti, capaci di offrire strumenti sempre maggiori di comprensione ed anche di comparazione con altri fenomeni del moderno e del contemporaneo» (Riccardo Marchis, Istoreto).
Può sembrare banale ma il primo aspetto essenziale, da non dare per scontato, è il contesto: il fatto che la discriminazione e la persecuzione di ebrei, dei rom e sinti, e insieme di resistenti, oppositori e dei diversi gruppi che i nazisti consideravano “estranei alla comunità”, sia collocata dentro coordinate spaziali (Europa), temporali (anni ’30 e ’40) e politiche (la guerra dei trent'anni del '900). Per i più piccoli il riferimento è al tempo-mondo dei bisnonni, più che dei nonni, con cambiamenti rispetto a quello attuale difficili da comprendere.
Inoltre è richiesta una forte attenzione agli aspetti socio-psico-affettivi: sia come si è detto i prerequisiti, sia per l’attenzione verso le culture di provenienza, oggi più che nel passato differenziate. Non si può dare per scontato nulla rispetto a storie di famiglia differenti, sensibilità differenti, soglie di dolore differenti che rinviano a storie e prospettive (anche religiose) differenti rispetto a quelli della grande narrazione tradizionalmente euro-centrica.
Da un punto di vista educativo la storia della galassia concentrazionaria, per la centralità che in essa ha la persecuzione razzista dell'infanzia, aiuta a mettere a fuoco il valore delle differenze, il rispetto dell’altro e il suo riconoscimento, osservato in un processo che si manifesta come la più radicale negazione di tutto questo. Sotto il profilo pedagogico-didattico, questa storia mostra non la generica “follia di Hitler” (una chiave semplificatrice ancora molto diffusa, anche tra studenti più grandi e adulti) quanto la totale negazione dell’altro insita nel progetto totalitario e di palingenesi a sfondo razzista nazionalsocialista. E da lì apre la possibilità di vedere le potenzialità distruttive in determinate condizioni, contrassegnate in particolare dalla mancanza di libertà, da ideologie della differenza, dallo stato di guerra, che appartengono alla genealogia culturale europea.
È noto come il lager per Primo Levi sia stato un laboratorio tristemente privilegiato per osservare l’immenso potenziale di violenza del mondo moderno.
Poiché lo snodo persecuzione, concentrazione e sterminio presenta un surplus di complessità e di violenza per il mondo bambino, si tratta di mettere gli studenti nella condizione di affrontare un dolore che sia alla portata di comprensione e di sopportazione ed evidenziare parole-chiave che possano avere significato concreto, come inclusione/esclusione, io/altro, diritti/responsabilità e stare insieme – in prospettiva, costruire cittadinanza.
«L’esclusione dal gruppo classe, il cambio del nome, le fughe, la solitudine sono solo alcuni degli aspetti che possono essere compresi e assimilati anche negli ultimi anni di scuola elementare»: nel testo Sonia Brunetti (Scuola ebraica di Torino) suggerisce di leggere testi tali da sollecitare «il senso di competenza dei bambini» e farli entrare «in sintonia con un’infanzia distante nella realtà materiale, ma vicinissima al sentimento e alle emozioni». Anche le istituzioni internazionali che si occupano di trasmissione della memoria della Shoah, come Yad Vashem in Israele o Memorial de la Shoah di Parigi, concordano sull’esigenza di costruire il racconto storico con i bambini, concentrandosi sull’aspetto dell’emarginazione e della negazione dei diritti più che sulla fase finale dell’assassinio di massa.
Essere esclusi per qualche motivo è già un dolore molto forte; persecuzione e morte violenta paradossalmente rischiano di inserirsi in un universo finzionale orrorifico che non sempre ha spessore, profondità e consapevolezza. Per usare un'immagine che molti bambini conoscono, come avviene nel ciclo di romanzi di J.K. Rowling dedicati a Harry Potter, solo chi ha visto morire qualcuno è in grado di vedere i Thestral, i neri destrieri alati, invisibili a tutti gli altri, che trascinano le carrozze del castello-scuola Hogwarts.
Una esperienza didattica elaborata all'interno di Istoreto e svolta con classi di quinta elementare si muove intorno ai diari scolastici di Elena Ottolenghi, che a Torino dovette abbandonare la scuola in quarta elementare per le leggi razziali, o i libri di Lia Levi. Storie di allontanamenti, di maestre perdute che non ti possono più salutare per strada e di fughe precipitose e famiglie distrutte.
Analoghi percorsi didattici sono relativi a storie, luoghi, documenti: tre assi che permettono un lavoro di conoscenza storica per gli studenti della scuola primaria e che, senza insistere sul sentimentalismo e sull’immedesimazione con la vittima, hanno il pregio di tenere legati empatia e approccio storico, preludendo alla possibilità di riconoscere luoghi e pratiche dell’inclusione e dei diritti di oggi, pensati dai bambini per i bambini.
Ancora dal convegno citato emerge come la storia della Shoah debba essere raccontata nelle sue fasi e nei suoi diversi aspetti. Il compito di chi educa e forma è quello di «avvicinare progressivamente, di offrire strumenti, di rompere riflessioni stereotipate o riduttive per aprire e integrare prospettive diverse. Se l’esordio della narrazione sta quindi nei processi di esclusione e di emarginazione la fine non può essere solo nel fumo dei camini» (Brunetti). Si tratta di raccontare non solo la sofferenza e la disperazione dei campi di sterminio ma anche «una risposta alla morte e al dolore», la resistenza in lager, la dignità, l'attaccamento alla vita in un mondo di negazione e rovesciamento dei valori.
L’impianto pedagogico e metodologico di una narrazione sensibile per ragazzi passa dunque attraverso l’utilizzo di fonti, in particolare vissuti personali; attraverso la dimensione locale e prossimale della storia, la ricerca di linguaggi, ellittici, laterali che possano parlare in modo tale da essere restituiti e rielaborati (cfr. la conversazione con Anna Sarfatti, Alessandra Fontanesi, Donatella Giulietti).
Quello bambino è uno sguardo specifico (si veda il blog dello storico Bruno Maida), più diretto e in cui la dimensione dell’empatia è molto potente; anche se, come si è detto, non è escluso che molti bambini siano già stati esposti alla rappresentazione pubblica, celebrativa, monumentale e stereotipata della violenza. Pur essendo molto chiari su questa, è importante anche che la speranza, sopravvivenza e riscatto abbiano posto. Così come far emergere le storie di solidarietà di chi ha aiutato, nascosto, protetto, contro quelle di delazione, interesse, crudeltà. Il che significa, a livello educativo, evidenziare la possibilità della scelta di opporsi al nazismo e al fascismo, e in termini di competenze esistenziali, il senso della responsabilità.
Nei suoi aspetti etici la storia della deportazione ricostruisce traiettorie di uomini e donne, vittime o carnefici, collaborazionisti, delatori, salvatori, osservatori passivi: mostra la psicologia degli esseri umani, le varie scelte davanti alle quali si trovarono i diversi attori sociali; evidenzia la possibilità di saper passare logicamente da una particolare situazione storica alla comprensione della propria collocazione dentro il mondo. È immediato il richiamo a un libro fondamentale del recentemente scomparso Zygmunt Bauman, Modernità e olocausto, in cui venivano sottolineati non solo i contributi della sociologia alla studio della Shoah quanto la profondità di sguardo che lo studio della Shoah ha dato alla sociologia, chiedendole di interrogarsi su se stessa e ispirando importanti studi sul comportamento umano in situazioni di organizzazione, controllo e autorità e sulla dimensione dei corpi soggetti/oggetti di diverse forme di potere istituzionale.
Occuparsi continuativamente e professionalmente di violenza, guerra ai civili, deportazione, concentramento e sterminio non è senza effetti collaterali. L'invito è a comprendere, in una sorta di autoanalisi, come e quando noi abbiamo incontrato l’argomento e quale rilevanza gli abbiamo assegnato nella nostra economia cognitiva, nella sfera affettiva, nella dimensione psico-politica. Ognuno dovrebbe porsi il problema di non banalizzare, terrorizzare o lasciare sgomenti di fronte al male i propri studenti, quanto piuttosto di rinforzare in loro il senso di giustizia, anche piccola, di cui essere portatori.
Per il valore di conoscenza storica e dell'immaginario qui, come in altre storie di dolore, si impara l'Abc dell'ingiustizia intorno al quale si manifestano empatia, simpatia e all’opposto repulsione, rabbia e indignazione, elementi importanti per la cittadinanza critica e attiva. Senza i quali non ci può essere progettazione e azione collettiva coordinata in vista di spazi di interesse comune.
La questione della postura etica che possiamo sollecitare in qualcuno, oltre ad evitarci di andare in pezzi ogni volta e continuando a conservare la sensibilità, è traccia profonda del senso del lavoro che facciamo. Essere consapevoli delle risonanze che la storia ha prodotto nella definizione della nostra personalità di studiosi ed educatori aiuta a capire quelle che può produrre negli studenti, e a costruire la  condivisione dei saperi necessari alla democrazia. La cosa che rende la scuola un posto speciale. 
Enrico Manera 
pubblicato il 27 gennaio 2017 da doppiozero.com

Il documento "Quando si inizia? Insegnare Auschwitz alle elementari. Laboratoeri, esperienze, progettia confronto" [clicca qui]