Alessia
è un'avvocata.
Nella sede cobas bolognese viene una volta a settimana; oltre a
darci la consulenza per le problematiche degli insegnanti, difende i
lavoratori del settore privato. Ma in questi giorni - qualora
la cercaste - non è in sede, perché, insieme ad altre donne del
collettivo Mafalda, è ad Idomeni, località greca al confine con la
Macedonia, posta lungo uno dei percorsi di fuga dalla guerra in
Siria e quindi divenuta tappa importante per tanti profughi del
cosiddetto Medio Oriente.
Nel
campo dove si trova
Alessia da diversi mesi vivono profughi partiti in gran parte dalla
Siria, ma anche iracheni, curdi e addirittura afgani. Sono più o meno
10mila, di cui il 40% bambini e bambine - e circa 600 le
donne in stato di gravidanza. Sono bloccati in questo campo - non
ufficiale - perché difendono il loro diritto a fuggire dai luoghi di
guerra, a cercare una via d'uscita, nelle strade e nelle
città dell'Europa, dai bombardamenti e dalle armi: hanno rischiato
la vita per darsi questa speranza. Difficile per noi europei capire fino
in fondo.
Alessia
ci scrive tramite
whatsapp: “Il campo è senza luce e elettricità fatta eccezione per
la tenda creata dai volontari. La polizia controlla entrata e uscita, di
fatto non è materialmente possibile chiedere asilo
politico. I migranti non vogliono andare nei campi governativi
perché là non hanno nessuna garanzia”. Non si possono fidare. Ora
l'Europa ha scelto di pagare i rimpatri e di mettere al lavoro la
Turchia abbondantemente monetizzata. Così Idomeni è il luogo in cui
resistono i profughi che non si danno per vinti, che vogliono mettersi
alle spalle quella guerra affermando il loro diritto di
esseri umani alla fuga, oltre che il diritto internazionale a
chiedere asilo e protezione internazionale.
Il
gruppo di legali e di traduttrici volontarie porta i computer perché
l'unico modo nel campo per chiedere il diritto d'asilo è via skype, ma
l'elettricità scarseggia.
La richiesta è complessa, per farne 10mila occorrerebbero anni,
intanto però si comincia, e si denuncia la disumanità della situazione
all'opinione pubblica europea, quell'opinione pubblica che
spesso preferisce voltarsi dall'altra parte e magari votare il
partito dei costruttori di muri. Infatti Alessia conta anche su di noi
per fare circolare queste foto, perché la sua esperienza
diretta diventi patrimonio di molti, da proteggere e da accompagnare
un passo in avanti. Le foto poi con cui accompagna le sue parole sono
già di per sé eloquenti: una tenda del campo con un
bambino, le tende sotto un arcobaleno, “il
treno dismesso” in cui “dormono molti minori non accompagnati”, perché
appunto il campo di Idomeni è in gran parte fatto di bambini
e bambine, ragazze e ragazzi, “molti
minori non accompagnati che sono accuditi dagli altri migranti che non
vengono accolti”. Alessia aggiunge telegrafica: “unica nota di
normalità, i bambini
bellissimi e affettuosissimi”. Ci manda anche otto bellissimi e
drammatici disegni. L'autore è un bambino curdo di Kobane, la città
siriana al confine con la Turchia che ha resistito strenuamente
contro l'Isis facendo fronte persino ai boicottaggi di Erdogan. Sono
disegni simbolici di un ragazzo che mostra una coscienza politica fuori
dal comune oggi in Europa: ogni immagine ha un
significato, l'Isis è un mostro dalla cui coda spunta una bandiera
nera mentre la patriota combattente curda ne schiaccia il capo; in un
altro disegno ci siamo noi, l'Europa, tra gli indifferenti
giocatori di calcio che si rimpallano una sfera piena di profughi
che nessuno vuole; un altro è tutto azzurro, un grande mare che avvolge i
corpi capovolti di donne e
bambini.
In
futuro ricorderanno la
nostra epoca come quella in cui l'Europa non volle prestare aiuto ai
bambini che scappavano dalle guerre. Siamo talmente occupati a
santificare la memoria e a celebrare le vittime del passato che
non siamo in grado di agire collettivamente sul presente per
affrontare queste tragedie. Anche nelle scuole troviamo difficoltà a
trasmettere l'eccezionalità della situazione. Facciamo fatica a
renderci conto fino in fondo di quello che sta accadendo, quindi
ancora di più a comunicarlo a studentesse e studenti, bambini e bambine.
La difficoltà non è di contenuto, ma di senso: spiegarlo
in fin dei conti è facile, è un problema tecnico; il difficile è
comunicarlo, comunicarne il senso profondo. Quando si organizzano i
treni studenteschi per Auschwitz lo si fa proprio per colmare
questo baratro di comunicazione, per trasmettere con l'empatia ciò
che la distanza storica e l'enormità disumana dell'accaduto ci rende
così arduo rappresentare. Servirebbe qualche treno
studentesco per Idomeni.
Così
spesso a scuola si
sceglie di parlare d'altro, ci si rifugia nel programma, nel lavoro
dell'insegnante inteso in senso burocratico. Eppure questi disegni ci
chiedono qualcosa, queste immagini che Alessia ci sta
inviando ci offrono un'occasione. Ci chiedono di essere guardati
ora, non di essere messi in mostra tra trent'anni. Ci chiedono di
diventare l'occasione per parlare di profughi, di migranti, di
guerra, di frontiere, di diritti, di confrontarci in classe con
bambini e ragazzi, costruendo percorsi per renderci conto insieme, per
provare a capire il mondo in cui stiamo vivendo. Ci chiedono
di ripartire dai bambini e dalle bambine non accompagnati che, come
tanti altri diseredati con la sola colpa di essere nati lontani
dall'Europa e dal Nord America, cercano di fuggire dalla fame e
dalla guerra. Come si insegna, come si comunica la divisione
internazionale del lavoro e della ricchezza? Come si trasmette ai
giovani – ma prima di tutto come possiamo imparare noi stessi –
l'idea che il mondo così com'è non è una realtà destinale e
immodificabile? La vecchia domanda riaffiora: si può insegnare come se
niente fosse?
Alessia
ogni sera ci
manda nuovi aggiornamenti. Poi tornerà a Bologna e ci racconterà
quello che ha fatto, che ha visto, che le hanno raccontato, che ha
provato: quanto ci faremo cambiare, noi insegnanti, da quello
che ci sta comunicando?
pubblicato da quandosuonalacampanella.it
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