28 feb 2016

se il videogioco entra in classe (di f. mazzetta)

Videogames. Si chiama «This war of Mine» ed è una sorta di educatore che può insegnare a ragazze e ragazzi cosa significa vivere in un periodo di guerra

Nel suo libro Contro il colonialismo digitale (Laterza, 2013) Roberto Casati scrive cose molto sensate sulla scarsa utilità della forzata digitalizzazione della scuola. Ma, forse preso nella sua critica al concetto prenskiano di «nativi digitali», coinvolge nel bando dalla scuola anche i videogiochi. In realtà non facendo abbastanza attenzione a quanto scritto in un testo fondamentale sull’argomento come quello del linguista americano James Paul Gee (Come un videogioco, Raffaello Cortina, 2013) dove si sostiene non che si debbano portare a scuola i videogiochi ma piuttosto che è necessario che la scuola adotti i principi educativi che si possono trovare in ogni buon videogioco.
In realtà però stavolta abbiamo di fronte un game che sarebbe utile che la scuola utilizzasse direttamente per parlare con gli studenti delle tematiche trattate. Si chiama This War Of Mine realizzato dallo sviluppatore polacco 11 bit studios e pubblicato alla fine del 2014 su Steam e per smartphone Apple e Android e successivamente convertito per PS4 e Xbox One e pubblicato ora per queste piattaforme da Deep Silver (http://www.11bitstudios.com/games/16/this-war-of-mine).
La confezione del gioco riporta la classificazione PEGI 18, ma si tratta di un gioco che, con la supervisione di un educatore, un genitore o un insegnante, può essere proposto a ragazze e ragazzi dalla scuola media in su come strumento per spiegare cosa significhi essere un civile in un periodo di guerra, in una città sotto assedio e priva di rifornimenti.
Gli sviluppatori si cono ispirati all’assedio di Sarajevo e mettono il giocatore nelle condizioni di controllare un piccolo gruppo di persone rifugiate in un edificio semidistrutto e far sì che esse possano sopravvivere il più a lungo possibile alla fame, al freddo alle malattie, agli sciacalli, alla depressione di vedere chi ti sta vicino ammalarsi, soffrire e morire. Per farlo l’obiettivo principale è recuperare risorse: attrezzi, cibo, medicine, ecc. Possiamo rovistare tra le macerie o in locali ed arredi abbandonati, ma possiamo anche barattarli con altri o organizzare razzie notturne per depredare abitazioni e rifugi altrui.
Possiamo decidere se aiutare e ospitare altri sopravvissuti diminuendo le risorse a disposizione di ciascuno ma aumentando le forze complessive del gruppo o comportarci egoisticamente e conservare per noi stessi tutte le risorse faticosamente reperite.
Certo, a disposizione abbiamo una panoplia di strumenti informativi per documentarci sulle varie guerre di cui siamo (stati) testimoni in questo e nel secolo scorso, sulle conseguenze, sulle condizioni di vita che esse hanno provocato e stanno provocando su chi combatte e sulla popolazione civile, su coloro che decidono di fronte a tutta la distruzione di cui sono testimoni di tentare la sorte altrove attraversando terre e solcando mari e diventando quelli che con sempre più malcelato disprezzo la vulgata definisce «profughi».

Ma le informazioni sono un oggetto freddo che alla fine provoca un sovraccarico: quando sono sovrabbondanti non riusciamo più a gestirle, non ce ne accorgiamo neppure, come i bambini morti affogati nell’attraversamento del Mediterraneo che non fanno più notizia e scompaiono dopo che avevano commosso ed indignato. Il videogioco — esattamente come altri media narrativi come la letteratura o il cinema — innesca una forma di comprensione tramite le emozioni che sono suscitate in noi dall’identificarci con i protagonisti delle storie che leggiamo/guardiamo/giochiamo. Il videogioco può riuscire in tale compito addirittura meglio degli altri media perché è interattivo e il giocatore sente che almeno una parte di ciò che succede nella storia è diretta conseguenza delle sue decisioni.
Ecco allora che a scuola This War Of Mine può trasformarsi in un vero e proprio compito videoludico: assegnare a ogni ragazza e ad ogni ragazzo una piccola squadra di sopravvissuti (grazie alla disponibilità di tecnologie informatiche tra i cosiddetti nativi digitali e all’interno della cosiddetta buona scuola) con l’obiettivo di farli sopravvivere per 10/20/30 giorni (intesi come giorni all’interno del gioco) chiedendo alla fine ad ognuno di parlare di come e perché c’è riuscita/o o meno, di quali strategie ha utilizzato, quali emozioni sono state innescate dal gioco. Indipendentemente dal risultato ottenuto all’interno di esso, la possibilità di vedere con occhi meno disattenti le ondate di umanità in fuga dall’orrore della guerra, è un successo incredibile e dimostra come i serious game non sono solo esperimenti estemporanei, ma hanno le potenzialità per trasformare tematiche impegnate in oggetti interessanti per l’industria videoludica.
(Francesco Mazzetta, il manifesto, supplemento Alias del 27 febbraio 2016)

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