Cosa
rappresenta il 25 aprile oggi per bambini e ragazzi, in anni in cui
stanno venendo a mancare gli ultimi protagonisti diretti e si chiude
l’era dei testimoni? Tranne che per ristrette minoranze politicizzate,
la mia sensazione è che del senso di questa data tra i giovani non resti
quasi nulla.
Nelle famiglie regna l’afasia riguardo alla storia e il racconto orale di fatti accaduti alle generazioni precedenti si è talmente affievolito da essersi quasi spento. A partire dagli anni Ottanta, che sono stati il momento di maggiore rottura culturale nel nostro paese, la Storia con la esse maiuscola, venerata dalle organizzazioni di massa e dai movimenti collettivi del secolo scorso, si è rapidamente trasformata in oggetto polveroso di cui disfarsi. E’ normale dunque che genitori vissuti nell’ultimo trentennio non considerino più la narrazione storica un terreno fertile nell’educazione dei figli.
Nelle famiglie regna l’afasia riguardo alla storia e il racconto orale di fatti accaduti alle generazioni precedenti si è talmente affievolito da essersi quasi spento. A partire dagli anni Ottanta, che sono stati il momento di maggiore rottura culturale nel nostro paese, la Storia con la esse maiuscola, venerata dalle organizzazioni di massa e dai movimenti collettivi del secolo scorso, si è rapidamente trasformata in oggetto polveroso di cui disfarsi. E’ normale dunque che genitori vissuti nell’ultimo trentennio non considerino più la narrazione storica un terreno fertile nell’educazione dei figli.
Rifletto
sui compiti enormemente accresciuti della scuola, dopo avere
partecipato al convegno “Quale memoria per quale società”, organizzato
presso la Camera dei deputati alla presenza della presidentessa Laura
Boldrini, nell’anno in cui si celebra il 70° anniversario dell’apertura
del campo di sterminio di Auschwitz.
Sembra si sia finalmente sbloccato il travagliato percorso della costruzione di un Museo nazionale della Shoah da realizzare a Roma, a Villa Torlonia, il cui progetto, disegnato dagli architetti Luca Zevi e Giorgio Tamburini, era stato approvato ben 8 anni fa. Il convegno, convocato per sostenere la necessità di questa realizzazione, non ha solo provato a fare il punto sullo stato della memoria della Shoah, ma ha allargato il discorso ragionando su come la nostra società fa i conti con la storia.
Sembra si sia finalmente sbloccato il travagliato percorso della costruzione di un Museo nazionale della Shoah da realizzare a Roma, a Villa Torlonia, il cui progetto, disegnato dagli architetti Luca Zevi e Giorgio Tamburini, era stato approvato ben 8 anni fa. Il convegno, convocato per sostenere la necessità di questa realizzazione, non ha solo provato a fare il punto sullo stato della memoria della Shoah, ma ha allargato il discorso ragionando su come la nostra società fa i conti con la storia.
Marcello
Flores ha iniziato la sua lezione ricordando che le neuroscienze
confermano come la memoria non sia un deposito, un archivio, ma una
continua ricostruzione che si rinnova. Ha poi parlato del boom della
memoria, che caratterizza da alcuni decenni gli studi storici,
sottolineando come nemici della memoria siano la sacralizzazione che
mitizza e la banalizzazione che tende a facili comparazioni, come quando
si parla con superficialità della nascita di nuovi Hitler.
Il peso dato alle memorie personali delle vittime, così come alle memorie dei carnefici e di coloro che hanno collaborato passivamente, ha contribuito ad incrinare le illusioni positivistiche di una storia ricostruita una volta per tutte nella sua oggettività.
C’è tuttavia il rischio - ha sottolineato Flores - che ciascun gruppo resti intrappolato in una sua memoria settoriale, negando la realtà delle nostre società complesse, in cui la compresenza di identità molteplici è un dato di fatto irreversibile. Queste sue considerazioni mi hanno fatto ricordare l’allarme sofferto e lungimirante lanciato da Alexander Langer oltre 25 anni fa, all’inizio delle guerre nell’ex-Yugoslavia, che riportarono la pratica della pulizia etnica in Europa, quando invitava a osservare con estrema attenzione i pericoli di ogni processo di recupero di identità fondato sulla separazione etnica.
Il peso dato alle memorie personali delle vittime, così come alle memorie dei carnefici e di coloro che hanno collaborato passivamente, ha contribuito ad incrinare le illusioni positivistiche di una storia ricostruita una volta per tutte nella sua oggettività.
C’è tuttavia il rischio - ha sottolineato Flores - che ciascun gruppo resti intrappolato in una sua memoria settoriale, negando la realtà delle nostre società complesse, in cui la compresenza di identità molteplici è un dato di fatto irreversibile. Queste sue considerazioni mi hanno fatto ricordare l’allarme sofferto e lungimirante lanciato da Alexander Langer oltre 25 anni fa, all’inizio delle guerre nell’ex-Yugoslavia, che riportarono la pratica della pulizia etnica in Europa, quando invitava a osservare con estrema attenzione i pericoli di ogni processo di recupero di identità fondato sulla separazione etnica.
Lo
studio della Shoah può essere una lente di ingrandimento che ci aiuta a
riconoscere tutti gli stermini, ha detto Renzo Gattegna, Presidente
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane: considerazione
particolarmente attuale in queste settimane, in cui si torna a discutere
del genocidio armeno.
L’importanza della comparazione storica tra genocidi mi ha ricordato la testimonianza di due donne africane. Yolande Mukagasana, sopravvissuta tutsi al genocidio del 1994 in Ruanda, percorre da anni instancabilmente diversi paesi europei per narrare la sua storia soprattutto ai giovani, perché ci tiene che la parola genocidatario entri nel linguaggio comune, sostenendo con convinzione che non abbiamo nessuna garanzia che massacri e stermini a sfondo etnico o religioso non si ripetano. Stessi concetti sosteneva negli anni Novanta la militante algerina dei diritti delle donne Khalida Messaoudi, esasperata dall’assoluta indifferenza con cui l’Europa guardava ai massacri perpetrati dai fondamentalisti islamisti, che costarono al suo paese 200.000 morti e che forse, se avessimo ascoltato con maggiore attenzione, ci avrebbero aiutato a comprendere per tempo altre violenze ed altri fondamentalismi che si stavano delineando all’orizzonte e ora scuotono tanti paesi dell’Africa e del Medio Oriente.
E’ stato particolarmente sentito il momento in cui Renzo Gattegna ha espresso con commozione la sua solidarietà ai musulmani e cristiani assassinati dal terrorismo islamista. Ciò che è accaduto contro i ragazzi cristiani nella scuola di Garissa, nel nord del Kenia, risponde alla stessa logica che separava ebrei e rom da tutti gli altri, per condurli nei campi di sterminio.
L’importanza della comparazione storica tra genocidi mi ha ricordato la testimonianza di due donne africane. Yolande Mukagasana, sopravvissuta tutsi al genocidio del 1994 in Ruanda, percorre da anni instancabilmente diversi paesi europei per narrare la sua storia soprattutto ai giovani, perché ci tiene che la parola genocidatario entri nel linguaggio comune, sostenendo con convinzione che non abbiamo nessuna garanzia che massacri e stermini a sfondo etnico o religioso non si ripetano. Stessi concetti sosteneva negli anni Novanta la militante algerina dei diritti delle donne Khalida Messaoudi, esasperata dall’assoluta indifferenza con cui l’Europa guardava ai massacri perpetrati dai fondamentalisti islamisti, che costarono al suo paese 200.000 morti e che forse, se avessimo ascoltato con maggiore attenzione, ci avrebbero aiutato a comprendere per tempo altre violenze ed altri fondamentalismi che si stavano delineando all’orizzonte e ora scuotono tanti paesi dell’Africa e del Medio Oriente.
E’ stato particolarmente sentito il momento in cui Renzo Gattegna ha espresso con commozione la sua solidarietà ai musulmani e cristiani assassinati dal terrorismo islamista. Ciò che è accaduto contro i ragazzi cristiani nella scuola di Garissa, nel nord del Kenia, risponde alla stessa logica che separava ebrei e rom da tutti gli altri, per condurli nei campi di sterminio.
Ho
ascoltato racconti di ragazze delle medie di una scuola della provincia
di Pavia, scoppiate in lacrime per la paura che arrivi anche da noi
l’ISIS. C’è un ulteriore motivo, allora, per tornare nelle scuole a
proporre un confronto serrato con la storia, trovando strumenti e
documenti che permettano a ciascuna ragazza o ragazzo di fare i conti
individualmente, personalmente, con eventi storici che non possiamo
dimenticare.
Lo
ha bene espresso Gabriele Nissim, quando ha parlato dell’importanza di
narrare e fare incontrare ai giovani i percorsi di vita e le scelte dei
giusti, dei persuasi, di coloro che si sono ribellati al male con
puntuali ed efficaci scelte concrete di protezione e sostegno alle
vittime innocenti.
Il suo suggerimento è particolarmente importante per chi educa, perché bisogna trovare dei punti di appoggio per tentare difficili processi di immedesimazione, senza i quali è difficile “instillare nei più giovani la voglia di imparare dal passato”, come ha giustamente richiesto Laura Boldrini.
E’ importante che si costruisca un museo, così come sono stati di grandissimo valore i viaggi ad Auschwitz organizzati da molte scuole negli ultimi decenni, ma altrettanto importante è pensare che se il calendario è costellato di feste civili, la scuola deve fare ogni sforzo per rinnovarne il senso non con frasi e cerimonie che rischiano di apparire retoriche, ma con la scelta di dedicare tempo e attenzione e cura a materiali capaci di fare avvicinare i ragazzi alla grande storia, attraverso approcci molteplici capaci di scavare in profondità, a cui dedicare tutto il tempo che necessitano. Si può partire magari proprio da alcune storie esemplari di giusti che, come è stato ricordato, non sono dei santi o degli eroi, ma donne e uomini che in date circostanze hanno ritenuto di dover pensare con la propria testa e hanno sentito la necessità di assumersi la responsabilità di opporsi al male. Una ribellione, la loro, che può parlare ai ragazzi di oggi.
Il suo suggerimento è particolarmente importante per chi educa, perché bisogna trovare dei punti di appoggio per tentare difficili processi di immedesimazione, senza i quali è difficile “instillare nei più giovani la voglia di imparare dal passato”, come ha giustamente richiesto Laura Boldrini.
E’ importante che si costruisca un museo, così come sono stati di grandissimo valore i viaggi ad Auschwitz organizzati da molte scuole negli ultimi decenni, ma altrettanto importante è pensare che se il calendario è costellato di feste civili, la scuola deve fare ogni sforzo per rinnovarne il senso non con frasi e cerimonie che rischiano di apparire retoriche, ma con la scelta di dedicare tempo e attenzione e cura a materiali capaci di fare avvicinare i ragazzi alla grande storia, attraverso approcci molteplici capaci di scavare in profondità, a cui dedicare tutto il tempo che necessitano. Si può partire magari proprio da alcune storie esemplari di giusti che, come è stato ricordato, non sono dei santi o degli eroi, ma donne e uomini che in date circostanze hanno ritenuto di dover pensare con la propria testa e hanno sentito la necessità di assumersi la responsabilità di opporsi al male. Una ribellione, la loro, che può parlare ai ragazzi di oggi.
... segue …
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