Realizzato in due settimane di riprese, è stato definito “opera
civile, politica e felicemente sbilenca, irrisolta, eppure audace,
coraggiosa, spudorata nella propria voglia di sbattere la testa
contro il muro di tutto quanto la società civile nasconde sotto il
tappetto della falsa coscienza, delle buone maniere, dell’impegno di
facciata”. Per
dirla con formule note, si tratta di un «docu-fiction», un film di
finzione che accoglie nel proprio tessuto elementi di cinema del
reale.
Ambientata
nel quartiere multietnico del Pigneto a Roma, è la storia collettiva di
una classe di emigranti e stranieri che imparano l’italiano. È una
storia che si compone delle vicende individuali degli studenti e
dell’insegnante, Valerio Mastrandrea: un racconto vero che nasce tra
mura scolastiche non convenzionali. Un racconto vero? Certamente per le
voci e i ricordi dei ragazzi che siedono sui banchi; diversamente vero
per l’attore Mastandrea che si cala nel ruolo del loro insegnante;
altrimenti vero per il regista e la troupe che entrano ed escono di
scena in un incrocio di esperienze reali e di ricerca della verità nella
finzione che si rivela essere l’autentico nucleo narrativo di questa
storia.
Il
momento della verità giunge sotto forma di un permesso di soggiorno
non rinnovato. La troupe e il cast si trovano di fronte a una scelta
vitale: continuare o abbandonare tutto?
Il film, prodotto anche in collaborazione con Raicinema,
ha avuto da subito problemi di distribuzione. Ritenuto ora non idoneo,
ora non in linea con la politica aziendale, ora troppo sperimentale, i
produttori hanno allora deciso di procedere all’autodistribuzione, comunque non senza difficoltà.
<< Quando Valerio mi ha detto guardandomi negli occhi: “Gaglia,
nel film ci devi essere anche tu’, l’ho mandato a quel paese. Ma poi ho
capito che aveva ragione, che non potevo dire ad un altro che cosa il
regista del film doveva dire e fare, dovevo letteralmente metterci la
faccia. Fare questo film è stata un’esperienza unica: tutti i giorni
ripetevo sul set che stavamo rischiando grosso ma per qualcosa che ne
valeva la pena, perché il film o funzionava od era inguardabile. Non
c’erano vie di mezzo. Mi ha accompagnato e dato coraggio, la riflessione
di un poeta e scrittore russo del Novecento, Daniil Charms: le uniche
poesie che vale la pena scrivere sono quelle con dei versi che se si
prendono e si tirano contro una finestra, il vetro si deve rompere.” Daniele Gaglianone >>
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