L'intervento di [Marco Rossi-Doria] pubblicato sul numero 40 del settimanale Vita (14 ott 2011). Il testo è disponibile sul [blog] dell'autore.
Le aree metropolitane del Mezzogiorno conoscono da tre decenni una situazione di esclusione sociale e culturale di massa dei bambini e dei ragazzi. Il 23% delle famiglie vivono sotto la linea di povertà nel Sud mentre la media nazionale è dell’11%. Si tratta di 1.200.000 persone tra 0 e 18 anni. Alle quali vanno aggiunte ben 410.000 in situazione di povertà assoluta e altre centinaia di migliaia che sono poco sopra la linea di povertà.
Fino agli anni ottanta, nel Mezzogiorno la scuola - unitamente alle politiche pubbliche a sostegno dello sviluppo - è stata una forte leva di emancipazione dalle condizioni di povertà delle nuove generazioni. Ora non più. I dati – che la Fondazione con il Sud e Save the children hanno riassunto per l’ennesima volta - sono impressionanti. Il fallimento formativo riguarda oltre il 30% nel Mezzogiorno contro il 20% che è la già elevatissima media italiana. Nelle periferie il dato nazionale dei territori meno protetti - che già si eleva oltre il 25% anche al Nord - diventa, nelle città meridionali, il 45%. E i ragazzi senza scuola né lavoro legale né apprendistato sono il 30% nel Sud contro il 19,2% della media nazionale.
Dunque, le azioni di sistema riparative e compensative si sono interrotte. Così gli asili nido accolgono 1 bambino su 10 contro i 6 su 10 nel Centro-Nord. La contrazione dei plessi scolastici riguarda il 9% a Sud contro la media nazionale del 2%. Sono chiuse le esperienze di scuole di seconda occasione. Il tempo pieno, che serve di più dove vi è maggiore analfabetismo funzionale nelle famiglie e nelle comunità, riguarda nel Sud meno dell’8% delle classi della scuola di base contro il 35,3% del Centro, il 42,6% del Nord-Ovest e il 26% del Nord-Est. La formazione professionale – che ovunque dà struttura educante e apprendimenti alla fascia più debole della popolazione minorile – vede i corso triennali chiusi o di cattiva qualità, con rare eccezioni e gli istituti professionali con un bassissimo livello di interazione con aziende e territorio, peraltro devastati dalla disoccupazione di massa, con l’eccezione degli alberghieri. E – secondo la Banca d’Italia - il differenziale nell’investimento in istruzione da parte di enti locali, stato, famiglia è a svantaggio del Mezzogiorno di circa 1000 euro pro capite.
Dunque, il problema che il Paese ha di fronte è che l’analfabetismo funzionale di massa ha ripreso ad accompagnare e rafforzare l’esclusione sociale. Ed è certamente questo il più grave portato del modello di sviluppo duale che ha invertito le scelte politiche dei primi decenni della storia repubblicana, a svantaggio del Sud. Così, mentre la costante de-industrializzazione nel Sud non è stata contrastata da investimenti innovativi pubblici e privati e da piani strategici di riqualificazione urbana, vi è stato anche un progressivo e marcato ridimensionamento delle politiche formative e di welfare che erano fondate sulla discriminazione positiva. Questa inversione di indirizzo sta ora indebolendo la cultura di base che è indispensabile a sviluppo, legalità, intrapresa, merito, solidarietà e anche concorrenza.
Certamente, nel riflettere su tale situazione, si ripropone la storica questione delle classi dirigenti meridionali, in quanto il ceto politico del Sud ancor più che altrove occupa gli apparati pubblici per mantenere interessi corporativi o speculativi perseguendo i propri interessi attraverso le clientele elettorali e, in alcune aree di Calabria, Sicilia e Campania, legando tutto questo anche all’”intermediazione impropia” con il malaffare. Tale carattere del potere meridionale ha condizionato anche le decisioni in materia di istruzione e sostegno all’infanzia, già frammentate tra molti diversi centri di erogazione e gestione. Così, le scuole dell’autonomia e anche le reti del privato sociale – impoverite dal drenaggio di risorse dovute ai tagli nazionali - si sono trovate ad essere unici presidi educativi nel mezzo di lande dominate dalla cattiva o colpevole amministrazione locale e dall’illegalità.
Ma nonostante tutto, molte buone esperienze e riflessioni ci sono state e ci sono. Non si tratta di libri dei sogni ma di cose già attuate, che funzionano, che possono diventare politiche pubbliche che attuino la ripresa della responsabilità nazionale e locale insieme in favore dei bambini e dei ragazzi del Sud:
1. Sviluppare gli asili nido e il sostegno alla genitorialità durante la prima infanzia, soprattutto nei confronti delle mamme sole;
2. Sostenere le scuole dell’infanzia, dando loro più tempo per la progettazione e per l’alleanza con le famiglie e sviluppando azioni particolarmente promettenti quali mense comunitarie e psicomotricità;
3. Creare zone di educazione prioritaria lì dove si concentra la dispersione scolastica: privileggiare la conquista precoce delle competenze di base linguistiche, matematiche e scientifiche dando più tempo dedicato a chi ne ha più bisogno, raggiungere tutti gli adolescenti dispersi con scuole di seconda occasione, affiancare sport, musica, teatro, arte al rigoroso consolidamento degli alfabeti di cittadinanza;
4. Rilanciare la formazione professionale, la ripresa dell’apprendimento dei mestieri, le esperienze di formazione proiettate verso l’auto-impiego;
5. Rafforzare le ore di alfabetizzazione nell’apprendistato e offrire un pacchetto di almeno 300 ore per riprendere le conoscenze irrinunciabili con le persone di 16 – 28 anni;
6. Sostenere la formazione continua dei giovani emigrati al Nord;
7. Creare un patto tra banche, fondazioni, responsabilità sociale di impresa che sostenga il micro credito, la formazione e i luoghi di aggregazione giovanile positiva. Con quali soldi fare queste cose? Sarebbe ora di dire che almeno un terzo di una patrimoniale sia dedicata ai nostri bambini e ragazzi più poveri e che tali fondi, gestiti localmente, abbiano però un sistema di monitoraggio nazionale, ad un tempo rigoroso e partecipativo.
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